Il mondo dei dj è cambiato radicalmente nel corso degli ultimi dieci anni. L’esplosione EDM del decennio passato ha forzato diversi argini, ultimo dei quali, il più evidente, è stato il ruolo dei dj, che da orgogliose, compiaciute “anti-star” hanno invece sempre più apprezzato e poi ostentato un’immagine da frontman/woman sovrapponibile, nei migliori casi, alle stelle del rap, del pop, del rock. È storia: il ben noto understatement dei disc jockey, personaggi spesso famosi e di culto nella propria bolla, ma sconosciuti all’esterno di essa, era fatto di poche pose, di un profilo schivo e che oggi definiremmo da nerd, fieri di essere esperti di musica capaci di far ballare migliaia di persone ogni sera ma poco avvezzi all’edonismo dell’immagine che invece era croce e delizia dei personaggi famosi. Poi l’avvento di un genere decisamente mainstream come la dance dei primi anni ’10, i social network, un mondo che in blocco, nella sua totalità, ha rapidamente messo tra le sue priorità l’egocentrismo, la vanità, la voglia di protagonismo, hanno fatto crollare il baluardo del dj come figura di anti-divo (o diva, naturalmente).
In questo scenario si sono presto affermate personalità che avrebbero probabilmente avuto poche chances di diventare famose, o perlomeno così tanto famose, in altri momenti storici, quando i dj erano prima di tutto valutati in base alla capacità tecnica, alla qualità dei dischi in borsa, e più tardi dalle loro abilità in studio (c’è stato un tempo in cui suonavi in giro e diventavi famoso solo se avevi una carriera da producer); oggi sono altri i parametri che rappresentano appieno lo zeitgeist, lo spirito di un tempo da vivere smartphone alla mano e camera rigorosamente rivolta verso di sé. E l’estate 2023 sta definitivamente incoronando Peggy Gou come emblema del nostro tempo. Dopo un’ascesa fatta di un’agenda sempre più fitta tra dj set, collaborazioni con la moda, le puntuali polemiche di haters e collaboratori che rivelano al mondo la reale caratura della Crudelia coreana (Daniel Wang, ci sei?) e il soppesare continuo, logorante, delle qualità artistiche vere o presunte che una bellissima ragazza deve affrontare se diventa pure ricca, famosa e contesa dai brand del lusso, e dopo una manciata di successi che via via l’hanno portata in un territorio sempre più crossover, quest’anno la superstar coreana ha sganciato la bomba. ‘(It Goes Like) Nanana’ è indubbiamente il successo dell’estate. Miracolo nel miracolo, lo è certo nei festival e nei club ma anche nelle playlist, e soprattutto, nelle radio, dove ha conquistato un airplay da alta rotazione in mezzo mondo, e nelle playlist editoriali.
Kim Min-ji, coreana classe 1991, per tutti ovviamente Peggy Gou, è la star dell’anno. Un successo che abbiamo sintetizzato qualche riga fa e che grazie anche a massicce dosi di una comunicazione e un marketing molto, molto sapienti (sottolineo che non è un difetto, anzi) ha imposto la sua figura nelle migliori consolle del pianeta, sugli schermi dei nostri smartphone, dove compare in ogni maledetto feed o pagina di ricerca, e adesso anche a un livello davvero mainstream di diffusione discografica con un brano che è, ad essere buoni, una demo di un pezzo spaghetti-house dei primissimi anni ’90, un piano banale e piatto (nel suono) che suona un riff davvero banale e piatto e con una linea vocale tanto facilotta da recitare “nanananana”. Detta così è una recensione spietata e pure un poco livorosa. Non lo è. Perchè c’è un “ma” grande come una casa: il pezzo funziona. Ma funziona in un modo che rompe ogni resistenza, e piace ai festival dove – l’avrete notato – il trend dell’anno è una techno praticamente hardcore a 160 bpm così come alle sfilate di moda, ai cocktail, nei club pettinati, nelle feste private, nei bar all’aperitivo. La verità è che ‘(It Goes Like) Nanana’ non è altro che il ritratto e la sintesi perfetta della sua autrice. Accessibile ma elegante, paracula ma irresistibile. Non ce n’è. ‘(It Goes Like) Nanana’ rappresenta Peggy Gou e Peggy Gou rappresenta il mondo del clubbing oggi, un mondo che non si vergogna più dei grandi numeri e anzi li brama, un mondo che ormai ha conquistato il proprio posto al sole nella moda come nei grandi media, un mondo che non è più orgogliosamente “anti” ma anzi è sfacciatamente mercato, lusso e atteggiamenti da star.

Non è una colpa, è semplicemente la definitiva perdita dell’innocenza, il velo definitivo che cade. Se gli artisti EDM degli anni ’10 hanno dovuto fare i conti con fanbase e critica molto dubbiosi, che spesso creavano attriti rispetto alla voglia di essere iper-pop, oggi quelle barriere sono cadute senza malizia. Peggy Gou non è certo la migliore dj che abbia sentito in vita mia. Nemmeno la peggiore. È una nella media. Eppure la gente impazzisce per i suoi set molto instagrammabili. Così il suo pezzo, che alla faccia di qualunque motivatissima critica musicologica, funziona. E lo stesso possiamo dire di numerosi personaggi di successo saliti alla ribalta negli ultimi anni: funzionano. Non sono bravissimi/e dj, le scalette sono banali, roba che chiunque trova facile nella homepage di Beatport, eppure… sarà l’immagine? Sarà che conta più mostrare sui social le serate che impegnarsi davvero nella ricerca dei pezzi? Sarà che management e agenzie detengono ormai un potere tale da riuscire a imporre non solo nomi ma anche narrative precise all’interno di un mondo sempre più disinvolto, dove superstar techno dure e pure suonano un giorno nei club più blasonati del pianeta, quello successivo nel mainstage di un grande festival, e quello dopo ancora in un locale per ricchi, un mondo dove le line up dei club mescolano allegramente stili e personaggi di indubbia qualità e newcomer divenuti noti per un talento più videogenico che musicale? Un mondo dove gli sponsor e le leve finanziarie hanno sempre più peso?
Tutto questo, e, ovviamente, molto altro. Un talento particolare che si lega al saper stare nel proprio momento storico, la capacità di leggere un mercato che può serenamente mettere insieme un pezzo house-pop e i set nelle consolle più blasonate del pianeta senza timore di risultare stridenti. Il coraggio di fare certi tipi di passi e di power move. Il discorso vale per Peggy Gou come per molte altre star dei piatti. Lei è semplicemente quella più in vista, quella che oggi sta brillando maggiormente, ma gli esempi sono davvero molti. La techno come la house sono il nuovo mainstream e i loro eroi sono sempre più crossover. È l’estate in cui i big della techno suonano nei locali VIP ed è l’anno che ha consacrato i dj come character, come personaggi, da quella che è diventata famosa per i video (strepitosi e divertentissimi) sui social a quello che danza in consolle con coreografie di alto livello, da chi si è rifatta un’immagine più consona ai tempi cambiando completamente sound a chi si è evoluto con un apparato visivo e tecnologico ad altissimo budget.
Non c’è nulla di male nell’evoluzione della specie. E portare l’arte della consolle a un livello sempre più imponente è qualcosa che negli anni abbiamo difeso proprio perché ci ha permesso di uscire da un mondo laterale e spesso considerato di serie B. È una specifica necessaria, questa, perché la critica a tutto campo di solito viene dalle volpi che non arrivano all’uva, e non è il nostro caso. Forse però si sta perdendo un poco di anima, in questo frullatore costante dove alla fine pare contare sempre più solo l’incasso, i numeri, i contratti, in maniera un filo troppo sfacciata. Non ci dà fastidio il successo di Peggy Gou: è la punta di un iceberg, è la rappresentante più spendibile – e quindi presa sempre a modello, a esempio, a “antonomasia” – di un certo tipo di mondo nel nostro mondo. Ma quando tutto è nel vortice della specualazione esagerata, è il momento di riflettere sul serio.
12.08.2023