Foto: Martina Loiola
Non c’è dubbio che Populous sia un nome ormai consolidato nel panorama della musica elettronica internazionale. Se nel decennio post-2000 il suo suono era quello della sperimentazione legata alla label tedesca Morr Music, dopo una pausa di qualche anno ha inaugurato con ‘Night Safari’ (2014) un percorso che lo ho portato a flirtare con la musica sudamericana e con un’attitudine sempre più dance, chiaramente a modo suo. È successo in ‘Azulejos’ del 2017 e succede, in una forma ancora mutata, in ‘W’, il suo nuovo album uscito da pochi giorni. ‘W’ è un lavoro completo e complesso, certamente il disco più intrigante e sfaccettato di Populous, che pure ha sempre avuto la grande capacità di calamitare l’attenzione di molti sulla sua musica.
Ma qui Andrea Mangia fa un upgrade totale: mescola con disarmante facilità influenza e suggestioni stilistiche diverse tra loro senza mai perdere la propria personalità di artista e di producer. C’è, ancora, il Sudamerica, ma c’è anche la cassa in quattro, la house. C’è la forma canzone, c’è una certa malinconia di fondo che crea un amalgama meraviglioso con le atmosfere più inclini al party del disco. In più, nei lavori di Populous fa spesso capolino Andrea, perché la sua vivace personalità si riversa totalmente nella sua musica. Ma di questo, e di tanto altro, ce ne parla lui stesso nell’intervista che ci ha concesso.
‘W’ è il tuo nuovo album ed è sicuramente il disco più completo della tua lunga storia discografica. È come se lo stile del primo decennio della tua produzione si fosse fuso con tutte le influenze sudamericane – e non solo – che hanno contraddistinto i tuoi ultimi lavori. Sei d’accordo? Come è nato ‘W’?
Non c’era l’intenzionalità di scrivere un disco “pop”, tant’è vero che mentre era in lavorazione andavo in giro a dire che sarebbe venuto fuori oscuro e sperimentale. Questa è la conferma di come gli artisti spesso abbiano pochissima obiettività. Non è stato facile mettere assieme così tanta gente, ero terrorizzato che a risentirne sarebbe stata la coesione generale. Ero davvero contento del lavoro stilistico fatto su ‘Azulejos’, per cui avevo un po’ paura ad allontanarmi da un disco fortunato e, soprattutto, ad usare per la prima volta degli schemi più “clubbing” con la cassa in 4/4. Però alla fine in ‘W’ il concept non era tanto musicale quanto sociale e così mi son detto: “Fanculo le pippe mentali! Fai quello che tu e la gente che stai coinvolgendo si sente di fare.”. I pezzi, se analizzati uno ad uno, rispecchiano più gli ospiti di me. Ho cercato di portare rispetto. Glielo dovevo come segno di gratitudine e ammirazione verso la loro arte.
Spesso i tuoi dischi nascono in luoghi ben precisi, con delle lunghe “trasferte di ispirazione”. È stato così anche per ‘W’?
Questo è un disco “gipsy” che unisce tanti luoghi (e stili) diversi. Ho superato la fase da quasi-etnomusicologo, non certo per mancanza di interesse, ma perché volevo spostare il focus sui miei guest. L’elemento che ha poi unito il tutto è stato proprio lo studio sulle ritmiche del sud del mondo apprese negli anni scorsi.
Così come le tracce, anche le collaborazioni presenti sull’album sono molto eterogenee: c’è qualcuno che ti ha reso particolarmente orgoglioso? C’è un (o una) grande assente che avresti voluto e non è nella tracklist?
Avrei voluto tantissimo avere Planningtorock. Le avevo mandato anche un paio di messaggi ma continuava a rispondere con cuori, rose, arcobaleni. Ad un certo punto ho detto: “Ok ama, magari un’altra volta”. Poi anche Diva Dompé, la figlia di Kevin Haskins dei Bauhaus, che ha uno splendido progetto di musica ambient chiamato Yalmelic Frequencies. Anche con lei non è stato facile comunicare, visto che era sempre a fare meditazione. Alla fine ho pensato che sarebbe stato più semplice e naturale collaborare esclusivamente con persone amiche. E no, non ne sceglierò una a discapito di altre.
Immagino che la gestazione di ‘W’ sia durata diversi mesi, e che quando hai concepito i pezzi dell’album il mondo fosse ancora “quello di prima”. La tua musica ha avvertito un cambiamento durante questi mesi di emergenza sanitaria in cui abbiamo fatto i conti con abitudini sballate rispetto a tutto ciò che abbiamo vissuto in precedenza (parlo soprattutto di quel tipo di rapporti umani che sono venuti meno: club, studi di registrazione, convivialità)? Oppure, semplicemente, no?
Non so se ci rendiamo conto che questo periodo ce lo ricorderemo tutti, per sempre. Ricordo nitidamente che ero seduto sul tavolino da salotto dei miei mentre guardavo la diretta del TG con le immagini delle Torri Gemelle in fiamme. Pensa se non ci ricorderemo di tre mesi vissuti nello stesso cazzo di posto! Io poi ero anche solo. Ad un certo punto dialogavo con lo spremiagrumi, la lavatrice, le sedie. Ci possiamo sforzare quanto vogliamo di dire che non ha influenzato o non influenzerà la nostra vita, il nostro percorso artistico etc. Ma è impossibile che non avvenga. Io ad esempio ho scritto un disco ambient. Certo, erano anni che volevo farlo e, guarda un po’, l’ho fatto solo in questo periodo. Magari è un caso. La meditazione, ad ogni modo, ha avuto grande importanza durante questi mesi: la mia mente (solitamente debole e incasinata come poche) ne è uscita più forte. Ora non vorrei sembrare uno di quegli hippy coi pantaloni con l’elastico alle caviglie e i sandali di cuoio, il covid non credo possa arrivare a tanto. Così come non sto neppure parlando di meditazione classica, ma di qualcosa di più intimo e personale.
La tua musica, se ascoltata al netto di tutto ciò che si può conoscere di Populous o di Andrea Mangia, non è particolarmente identificabile con qualcosa di schierato rispetto alle tematiche di diritti civili in cui sei invece coinvolto. Quanto è importante per te e per la tua musica il fatto che rispecchi le idee di un movimento, che abbia una valenza sociale molto significativa, nonostante sia musica perlopiù da ballare, senza testi fortemente indirizzati alla lotta o al riconoscimento di certi diritti, di un modello di società?
Fino a pochi anni fa ero uno a cui non piaceva sovrapporre vita privata e musica. Però, davvero, come si fa? Come si fa a comunicare in modo 100% onesto se si esclude una cosa così importante come la propria identità sessuale? Davvero sento di fare solo ora la musica che avrei voluto fare dieci anni fa, non tanto per il sound, ma proprio per tutto quello che ora ho attorno. Non sono mai stato così sereno come in questi ultimi anni e mi piacerebbe tanto che questa cosa, in qualche modo, si riflettesse in ciò che sto producendo.
La cover dell’album è affidata a Nicola Napoli ed è molto significativa: ce ne vuoi parlare?
Nicola è un Artista pazzesco! L’ho conosciuto la scorsa estate in Salento tramite un’amica in comune. Mi sono documentato, trovando diversi articoli dove lo indicavano come uno degli illustratori della Berlino più queer e indefinibile (lavora per il Berghain e per altre feste non esattamente clericali) e, come tutte le altre volte, mi si è accesa la lampadina di quando trovi l’idea o in questo caso la persona giusta. Non era ancora rientrato in Germania che già stavamo facendo brainstorming bevendo gin tonic nelle piazzette dei borghi salentini. Volevamo che la copertina ti facesse immediatamente capire che stai per ascoltare un album corale (la moltitudine l’abbiamo presa in prestito da Sgt. Pepper’s), scritto e suonato da un “certo” tipo di persone (ecco perché tutto declinato al rosa). Umanamente e lavorativamente parlando una delle migliore esperienze della mia vita.
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04.06.2020
04.06.2020