E alla fine hanno ceduto anche loro. Underground Resistance hanno firmato una linea di abbigliamento con un noto brand di streetwear. Integralisti da sempre, i membri del collettivo techno di Detroit hanno fatto delle loro sortite “contro il sistema” il punto di forza della loro carriera, o perlomeno uno dei motivi per cui si è sempre chiacchierato molto di loro. Basti ricordare che soltanto qualche mese fa si erano scagliati con veemenza contro un peso altro massimo come Armin Van Buuren, “colpevole” di avere usato un nome e una grafica troppo simili ai loro per una sua serata a Ibiza. Naturalmente non siamo qui a sindacare sulla bontà della loro musica, da sempre UR è una di quelle realtà che hanno reso grande la techno e renderemo loro grazie per questo, in aeternum. Tuttavia è un segno dei tempi: se fino a qualche anno fa ogni flirt e collaborazione tra artisti appartenenti alla scena underground – di qualunque estrazione e sorta – veniva vista con sospetto e considerata come un “tradimento” di un certo modo di comportarsi e concepire la musica (da parte del pubblico e degli artisti stessi), gli ultimi tempi hanno sancito una decisa inversione di rotta. Un cambiamento di paradigma figlio del nostro tempo, perché la discografia langue in un continuo e costante rimpicciolimento dei suoi introiti, e in questo contesto diversi brand hanno saputo costruire nel tempo una narrazione, un sapiente culture marketing che ha rimodellato e riconfigurato le regole del gioco, fino a rendere non soltanto accettabili ma addirittura auspicabili e molto cool realtà come le Boiler Room sponsorizzate, le campagne di pubblicità dove sono coinvolti artisti di altissimo profilo e credibilità, le music academy, le sponsorizzazioni ai festival e ogni altro tipo di contenuto studiato ad hoc per rendere l’esperienza del fruitore accettabile.

In questo scenario gli UR si sono sempre approcciati in modo assolutamente integralista e intransigente a questo tipo di collaborazioni e partnership, sono sempre stati assolutamente respingenti; e dunque ironicamente oggi possiamo parlare della “fine della resistenza”. Collaborazione nella quale non c’è nulla di male, come insegnano i molteplici episodi di scambi costruttivi e in grado di far crescere la scena a diversi livelli, proprio nell’intransigenza dimostrata dal collettivo americano sta il vizio di forma dell’iniziativa che li coinvolge insieme al marchio di abbigliamento che produrrà le loro felpe e il resto della linea (peraltro molto bella, a quanto pare dalle foto). Da parte nostra non grideremo certo allo scandalo, non siamo nati ieri, non siamo idealisti ma dall’altra parte non siamo nemmeno sempre tifosi dei numeri a tutti costi. In altre parole, facciamo il tifo per la club culture, per la cultura del dj e della musica da ballo. E se nel 2017 ciò significa lavorare insieme a realtà imprenditoriali di alto livello che sposano la causa, non ci dà nessun dispiacere. Certo, ci sono dei distinguo precisi e delle modalità da rispettare, e i tempi delle Love Parade e delle grandi odissee dei rave autogestiti o delle serate organizzate con enormi sforzi da promoter indipendenti diventati imprenditori restano una parte imprescindibile della storia della nostra cultura, ma se oggi le regole sono cambiate è giusto sposarle, quando in campo ci sono dei player che aiutano il nostro mondo a crescere. In questo caso proprio gli integralisti, proprio coloro che per anni si sono auto-eletti arbitri e paladini di queste regole, hanno fatto un passo falso. È un peccato, naturalmente, vedere un tale baluardo scendere a compromessi, ma d’altro canto è l’ennesimo, inevitabile, segno dei tempi.
16.11.2017