Foto: Aloha-0
La notizia è arrivata come un colpo basso, tuttavia nessuno si è davvero stupito: le autorità hanno ordinato la cessazione della musica a Sa Trinxa, il chiringuito simbolo della Ibiza autentica, quella dei piedi nella sabbia, dei dj set spontanei e delle albe ballate senza regole. Un provvedimento che suona come un’epitaffio e riportata anche da DJ MAG (UK): l’isola che fu capitale della controcultura è morta, soffocata dal business, dal turismo di lusso e dalle leggi che privilegiano i resort con cocktail a 50 euro rispetto alle animas libres.
Sa Trinxa, sulla spiaggia di Sant Josep, era l’ultimo baluardo di una Ibiza lontana dai vip e dalle carte di credito. Qui, dagli anni ’80, la musica non era un prodotto confezionato per turisti in cerca di Instagram, ma la colonna sonora di una comunità che ballava per passione, non per status. Oggi, con la scusa del “decoro” o del “rispetto delle norme”, si è deciso di spegnere anche quest’ultimo faro. Eppure, come ricorda un vecchio abitante, “qui i pirati mori non sono riusciti a fermare la festa, ci sono riusciti i burocrati”.
L’isola è da anni in balia di una commercializzazione spietata: dai superclub con liste d’attesa da oligarchi ai villaggi “instagrammabili” dove il concetto di hippie è ridotto a una maglietta strappata venduta a 300 euro. D’altronde è un argomento che abbiamo già trattato. Persino la Dalt Vila, patrimonio UNESCO, è diventata un set per influencer, mentre la Marina è un susseguirsi di yacht e negozi di lusso. I locali scappano, sostituiti da catene alberghiere, e il governo risponde con tasse sul turismo sostenibile che, ironia della sorte, servono solo a finanziare ulteriori operazioni di maquillage per attirare il jet set. C’è chi prova a resistere. I vecchi abitanti parlano di Ibiza come una “colonia del capitalismo”, dove persino il sole è in vendita. Alcuni artisti denunciano da anni la distruzione del paesaggio per far posto a hotel abbandonati e discoteche fantasma. Ma la verità è che la battaglia è persa: il brand “Ibiza” vale più della sua anima. E mentre i volantini delle agenzie promettono “autenticità”, l’unica cosa rimasta genuina è la rabbia di chi ha visto morire tutto.
Visualizza questo post su Instagram
Da un lato, i superclub di ultimissima generazione, con line up da festival e dj che propongono brand che diventano veri e propri show; dall’altra, un’isola ormai lontana anni luce da quella mitologica degli anni ’80 e anche ’90, quando comunque i promoter inglesi e non solo iniziavano a darle un alto volto. Noi siamo – ovviamente – fan della musica e del clubbing, e vedere i dj suonare in contesti estremamente innovativi e avanzati è spettacolare. Non va però dimenticato l’altra faccia della medaglia, e la vicenda di Sa Trinxa suona come un’ultima beffa: se Sa Trinxa non potrà più suonare, qualcuno inizierà a organizzare rave illegali nelle cale deserte, lontano dai radar dei vigili. Perché, come scriveva un graffito a Sant Antoni: “Potete vietare la musica, ma non il ritmo”. E il ritmo di Ibiza, quello vero, batte ancora nel cuore di chi non si è arreso. La chiusura improvvisa della programmazione DJ al Sa Trinxa rappresenta più di un semplice eccesso burocratico: segnala lo smantellamento sistematico del DNA culturale di Ibiza da parte dell’isola stessa. Mentre le autorità si nascondono dietro vaghi “regolamenti del parco naturale”, questa decisione rivela un preoccupante schema di ostilità burocratica verso quella stessa cultura musicale che ha costruito la reputazione globale dell’isola.
Mentre Ibiza affronta legittime preoccupazioni per l’overtourism, i funzionari sembrano confondere i locali autentici con le infrastrutture del turismo di massa. Sa Trinxa, attivo dagli anni ’70 come pilastro della cultura del suono balearico, è diventato danno collaterale in una campagna mal mirata che non riesce a distinguere tra turismo predatorio e autentico patrimonio culturale. Il riferimento criptico di Jon Sa Trinxa alla “forza pesante” suggerisce che non si è trattato di una discussione normativa collaborativa ma piuttosto di un ultimatum autoritario. La mancanza di “ragioni credibili” citata nella petizione della comunità—ora vicina alle 4.000 firme—espone la natura arbitraria di questa azione coercitiva.
“Qui ormai vogliono che tutti vadano in discoteca. Non puoi fare altro”, dice Franco Moiraghi che al Sa Trinxa è stato per anni resident dj. “Devi andare in discoteca. È l’isola che si è affermata con il clubbing. Ma una volta era diverso: i locali erano tutti all’aperto, c’erano personaggi come Freddy Mercury e James Brown che tenevano concerti al Ku e gente come gli Wham che giravano il videoclip di ‘Club Tropicana’ nella piscina del Pikes con Tony Pikes. Ma poi con gli anni si è perso tutto questo. Adesso è un problema perché la gente viene qui in realtà per farsi i selfie”.
Più rivelatrice è la stessa contraddizione nell’approccio di Ibiza: mentre blocca l’accesso ai punti panoramici di Es Vedrà e limita gli affitti a breve termine per combattere l’overtourism, le autorità distruggono simultaneamente uno dei pochi locali autentici rimasti che rappresenta l’evoluzione musicale organica dell’isola piuttosto che esperienze turistiche fabbricate. La descrizione della petizione di Sa Trinxa come “l’unico beach club autentico rimasto a Ibiza” sottolinea ciò che si sta perdendo—non solo un locale, ma l’ultimo residuo di un’era in cui la scena musicale di Ibiza emergeva da una comunità genuina piuttosto che da calcoli aziendali. Questo divieto non protegge il patrimonio naturale di Ibiza; ne cancella quello culturale, lasciando i visitatori con alternative sterilizzate e senz’anima che incarnano tutto ciò che è sbagliato nel turismo di massa moderno.
24.06.2025