A dicembre del 2017, la più grande associazione benefica per musicisti del Regno Unito – Help Musicians UK – ha ufficialmente lanciato una helpline disponibile ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni su sette, interamente dedicata al supporto psicologico per chi lavora nell’industria musicale. Si chiama Music Minds Metter ed offre terapie di tipo psicologico e motivazionale, al fine di ridurre il più possibile tutti i lati oscuri della vita vissuta tra palco e studio. Fondata addirittura 97 anni fa, Help Musicians ha una storia secolare nel settore e nel 2016 ha annunciato di aver ricevuto un’impennata del 22% di richieste di supporto da artisti di tutto il mondo. Perchè della salute mentale dei musicisti bisogna parlare, più di quanto si faccia – per lo più a ridosso di tragedie come il caso Avicii – e soprattutto con più pratica e meno teoria.
I dati sono ormai sotto gli occhi di tutti: uno studio condotto negli ultimi due anni dalla Westminster University di Londra ha chiarito ogni dubbio e posto un riflettore su un problema la cui urgenza non va sottovalutata. Da un sondaggio che ha coinvolto più di 2000 musicisti, è emerso che il 70% di loro avrebbe sofferto di attacchi di panico, stessa percentuale per depressione; tra questi, almeno il 30% di loro avrebbe almeno una volta pensato a ricevere supporto da una struttura specializzata. Tra le cause principali dei mali psicologici e fisici dei musicisti, spiccano i ritmi forzati dei tour – risultanti in poche ore di sonno e un pessimo regime alimentare – ma anche l’altissima aspettativa del pubblico e dell’industria, il poco riconoscimento psicologico del lavoro dietro le quinte della fame life offerta dai social e l’incapacità di poter instaurare stabili relazioni sociali o tenere un contatto diretto con amici e familiari.
Dopo il recentissimo episodio della morte di Avicii – probabilmente l’esempio più clamoroso, ma solo perchè il più recente di tutti – non sono pochi gli artisti che hanno colto il momento per sfogarsi riguardo il “backstage” della vita in tour. Kaskade, superstar dj americano, con una lettera aperta ai fan scritta a pochi giorni dalla scomparsa dello svedese, chiariva che “la vita del dj superstar, fatta di viaggi, soddisfazioni e divertimento sfrenato, regala allo spettatore l’illusione della perfezione“, aggiungendo che “ciò che si vede nei social è una percentuale minuscola di ciò che vive chi è costantemente sotto i riflettori“. C’è un’ansia che divora l’anima, uno sforzo sovrumano di tenuta fisica che deve perseverare un’immagine impeccabile davanti a migliaia di telecamere, c’è la paura che tutto finisca in un attimo, lasciando la star sola contro tutti. Proprio come il devastante silenzio della stanza d’albergo dopo il frastuono di un’esibizione sold out. “Dobbiamo essere tutti più consapevoli delle bugie che lo starsystem ci fa vedere ogni giorno, e smetterla di paragonare la nostra esistenza a quella di chi invidiamo online, perchè non ne sappiamo nulla”. Il punto fondamentale della lettera di Kaskade è proprio quest’ultimo: noi non ne sappiamo nulla. Motivo per cui in primis non possiamo giudicare (quanti post della serie “con i soldi suoi…” avete letto su Facebook?); in secundis dovremmo contribuire a sensibilizzare il tema della tutela della salute mentale degli artisti. Perchè quel che capita alla grande generazione dei “gone too soon” potrebbe tranquillamente capitare ad ognuno di noi al posto loro. Già, anche con quei bellissimi conti bancari.
Poi ci sono le scelte sbagliate di chi il conforto decide di cercarlo nelle sostanze: antidolorifici, antidepressivi, sonniferi, alcol. E sì, anche droghe. Perchè il substrato del successo non è insegnato da nessuna parte e nessuno di noi può sapere con certezza fin dove può arrivare la nostra tenacia. A raccontarlo al dettaglio è stato Luciano, che in un lungo post ha raccontato al mondo la battaglia che ha portato avanti nell’arco dell’ultimo anno, mesi difficili dedicati alla disintossicazione. Un percorso iniziato con umiltà e presa di coscienza, per uscire dall’oscurità della solitudine e della perdita dei punti di riferimento che il dj cileno viveva da ormai troppi anni. Mettendo spessissimo a repentaglio la propria stessa vita. Della trappola delle droghe ha parlato anche Erick Morillo, che vi era cascato senza rendersene conto durante un lungo periodo di sconforto e depressione, dovuto alla frustrazione dell’uscita dalla scena principale. Nell’ultimo International Music Summit di Ibiza – tra i più importanti raduni di addetti ai lavori della musica elettronica mondiale – Pete Tong ha parlato della necessità di istituire un gruppo di sostegno per i compositori della dance. Ha chiarito di non voler dire che “la festa sia finita“, riferendosi metaforicamente alla possibilità che l’industria sia completamente da rifondare, ma che “è comunque necessario darsi tutti una svegliata a riguardo e tenere il tema caldo, per non lasciare che chi soffra finisca col vergognarsene”. Questo perchè “non si può morire inseguendo un sogno.”
L’industria musicale internazionale negli ultimi anni ci ha regalato alcuni delle menti più geniali della storia della musica e grandi emozioni legate alle loro opere, ma è innegabile quanto il meccanismo del successo sia ormai diventato un vero e proprio tritacarne. La globalizzazione ha dimezzato qualsiasi parametro temporale: i cicli musicali durano di meno, le grandi hit durano una stagione, i protagonisti iniziano e finiscono la loro parabola nel giro di poco tempo. La concorrenza è spietata, siamo tutti connessi e restare sulla cresta dell’onda è sfiancante, soprattutto quando le aspettative sono immense e nessuno ha veramente conoscenza di quella che sia la tua esistenza giornaliera. Di questo parlava Nicky Romero, nel 2015, quando ha deciso di raccontare il proprio blocco creativo, durato un anno intero e che ad oggi non possiamo ancora considerare superato, dovuto principalmente ad ansia da prestazione e ad uno scarso controllo sul proprio tempo: “vi chiedo solo di non giudicarmi se mi sentite così poco”, diceva concludendo la lettera, “perchè la vostra cattiveria non potrà mai aiutarmi, mentre la vostra vicinanza sì”. Altro caso è quello di Ben Pearce, che nel 2016 annullava una lunga serie di date confessando la propria depressione post-palcoscenico e il male causato alla sua esistenza per aver sottovalutato il problema al principio. Allo stesso coro si sono uniti – in diverse occasioni – Moby, Above & Beyond, Borgore, deadmau5, Flosstradamus e tanti altri: tutti a condividere il fatto appurato che se una vita del genere ti sfugge di controllo può letteralmente ucciderti.
Non è realistico pensare di poter sovvertire l’ordine delle cose, perchè nella società odierna ha un’ovvia ragione di esistere. È chiaro perchè i tempi discografici siano quelli che ad oggi sono e perchè sia così importante per un artista riuscire ad essere il più possibile in vista, tra gli stage di tutto il mondo o a livello giornaliero nei social: il musicista è un’industria a sè, intorno al quale ruotano un mare di interessi economici che hanno bisogno di precisi e costanti algoritmi per poter continuare ad alimentare l’hype di un nome nella scena. Ciò che la sensibilizzazione può contribuire a fare è creare tutele, già semplicemente aumentando il livello di informazione sull’utilizzo scorretto di alcune sostanze e soprattutto far lievitare la conoscenza pubblica del problema per evitare le consuete e tristi gogne mediatiche a cui tutti siamo ormai abituate nell’era della apparente democrazia nei social media, e che molto spesso scoraggiano i diretti interessati ad esprimersi a riguardo.
EDIT 2019: la famiglia di Avicii ha annunciato la fondazione della Tim Bergling Foundation, che si propone di lavorare sui temi della salute mentale degli artisti e della prevenzione dei suicidi, oltre ad altri topic ambientali. Il tema del “mental health” sarà una priorità anche al prossimo International Music Summit di Ibiza.
29.05.2018