• GIOVEDì 18 DICEMBRE 2025
Interviste

Sam Ruffillo: italiano a modo mio

Siciliano di nascita, bolognese di residenza e berlinese per molti aspetti. Il suo ultimo album è la prova provata della sua capacità di far convivere al meglio analogico e digitale

foto di Michael Ullrich

House classica, funk romantico e ironiche vibrazioni italo: ecco come viene presentato ‘Tipo Così’, il nuovo album del produttore, musicista e dj italiano Sam Ruffillo, uscito da poche settimane su Toy Tonics. Un album composto da undici tracce, un nuovo capitolo di una storia ancora tutta da scrivere per un artista che ha già messo in bacheca set al Panorama Bar di Berlino e al Sónar di Barcellona, fino a paesi come Australia, Messico e Nuova Zelanda. E solo in questa vita (artistica): ha infatti un nutrito passato di successi con il progetto Keith & Supabeatz all’epoca dell’electro e fidget house (tante le produzioni e e remix usciti sulla mitica Southern Fried di Fatboy Slim, per esempio) e altre success stories legate a nomi e momenti diversi. Ora però è Sam Ruffillo, e racconta una storia nuova. Tutti ospiti spunti per intervistarlo in modalità long form, sempre più impegnato da mesi con le sue date in giro per il mondo.

 

La tua musica ha una forte identità, tra funk, soul, disco e un gusto tutto italiano. Come si è formata e ti sei formato musicalmente?
Sono cresciuto ascoltando hip hop, house ed elettronica, e credo che questi mondi si riflettano in quello che faccio oggi. Mi sono sempre sentito un outsider: ho sempre fatto le cose a modo mio, fidandomi più delle emozioni che di un genere in particolare. Forse sono troppo underground per il pop e troppo pop per l’underground, ma sicuramente sempre onesto con me stesso. Adesso mi sento molto vicino alla house in senso ampio: musica dance con vocal in italiano, fatta per muoversi ma anche da ascolto. Il mio obiettivo era proprio questo, creare musica in italiano che fosse solare, godibile, presa bene e che potesse arrivare sia ai pochi che ai tanti.

Negli ultimi anni la scena italiana ha riscoperto il groove, il funk e le sonorità più calde. Ti senti parte di questa nuova onda”, ammesso si possa definire tale?
Direi di sì, anzi spero di sì. Anche se il modo italiano di fare musica dance è sempre stato importante e riconoscibile, basti pensare quante scene e quanti producer incredibili abbiamo avuto negli ultimi decenni: del resto gli italiani hanno un senso estetico e una cura per i dettagli davvero speciali. L’Italia è piena di grandi talenti, alcuni dei quali sono diventati amici nel tempo, e penso che ci sia un legame tra tutti noi, un filo invisibile fatto di rispetto e affinità: molti di noi stanno semplicemente seguendo il piacere di suonare e produrre cose diverse, più calde, più groovy. Se questo è un movimento, ben venga. Per me – e credo anche per gli altri – è semplicemente un modo naturale di fare musica.

In studio: da dove parti quando crei un pezzo? Da un ritmo, da un basso, da un’immagine?
Spesso parto dal ritmo, ma non c’è mai una regola fissa. Ho tantissime note vocali sul telefono: a volte mi viene in mente un giro di basso, un hook, o anche soltanto un’idea di accordi o un mood. Mi piace sempre ragionare in termini di energia: è quella la vera bussola per me. Devo sentirmi muovere dentro, non riuscire a star fermo sulla sedia, avere quella sensazione in pancia. Ci sono momenti in cui tutto nasce in modo spontaneo e organico, altri in cui riprendo un riferimento dal passato per dargli una mia visione. In ogni caso, cerco sempre quella scintilla che mi faccia dire ‘ok, ci siamo’.

Usi sia strumenti analogici sia digitali: come bilanci l’anima vintage con le possibilità della tecnologia moderna?
Cerco di non pensarci troppo, sinceramente. Non sono più un fondamentalista come a vent’anni, per fortuna: la cosa più importante è il risultato finale. Amo usare strumenti che mi fanno sentire qualcosa, che siano vecchi synth o plugin nuovi. L’idea è far convivere la grana analogica con la precisione e la libertà del digitale, ma tutto in modo naturale. A volte un brano nasce tutto da macchine e strumenti fisici, altre volte è completamente in-the-box: l’importante è che suoni vivo, non perfetto. Uso la tecnologia e le possibilità che offre, non mi interessa rifare esattamente i suoni degli anni ottanta e novanta: sono già stati fatti. Mi piace sporcarmi le mani, mischiare linguaggi, contaminare l’analogico con il digitale e viceversa. Così spesso succedono le cose più interessanti.

Hai collaborato con diversi artisti e produttori. Qual è per te la chiave di una collaborazione riuscita?
Sicuramente il rapporto umano, tutto parte da lì: bisogna avere una connessione vera, basata su stima e affetto. Mi capita di ricevere richieste di collaborazioni ma spesso non accetto se non ci sono conoscenza o sintonia. Il secondo ingrediente è divertirsi. Se in studio c’è un’energia leggera, curiosa, senza ego, allora succedono cose belle: è emozionante quando si esplora, si fanno giri assurdi, si cancella tutto e si riparte da zero. È come cucinare insieme: se ognuno porta un ingrediente buono e genuino, il piatto sarà interessante, anche se non sai esattamente che sapore avrà. Con Ninfa (che ha cantato su tutto l’album), per esempio, è stato proprio così: ci siamo trovati su una lunghezza d’onda naturale, umana e affettiva prima che musicale, condividendo la stessa visione e sensibilità, e da lì è nato qualcosa di spontaneo e vero.

C’è un disco o qualche artista che ti ha ispirato e che ti ispira?
Ce ne sono tantissimi. Se devo sceglierne uno solo, per legame affettivo e importanza nella mia crescita, direi ‘Discovery’ dei Daft Punk: è stato un disco chiave, sono figlio di quella generazione e del French Touch. Ma potrei citarne molti altri: Todd Edwards, St. Germain, Masters At Work, Basement Jaxx, ma anche Bassi Maestro, Neffa, Fritz Da Cat, Sangue Misto, Subsonica, e poi ancora Bugz In The Attic, Audio Bullys, Air, Kerri Chandler, Royksopp, Soulwax: potrei andare all’infinito. Tutta roba che mi ha formato e che fa parte del mio DNA musicale. Ogni tanto torno lì, come se fosse una mappa da cui ripartire, per ritrovare certe sensazioni e stimoli.

 

La tua musica è molto internazionale, ma mantiene un’anima mediterranea. Quanto contano per te le radici italiane nel modo in cui componi e produci?
Contano tantissimo, anche se non è qualcosa che puoi forzare. È semplicemente parte di me: sono italiano, cresciuto nel Mediterraneo, e questa cosa si riflette nella mia musica; anche quando faccio house, dentro c’è sempre un’idea di sole, di leggerezza, di melodie che ti restano addosso, molto “italian way”. È una questione culturale e sensoriale: cresci con certi suoni, certi colori, certi ritmi di vita e inevitabilmente tutto finisce nella musica che fai. Da ragazzo però non era così: essere italiano mi pesava, lo vivevo quasi come un limite, perché i miei riferimenti erano l’America o la Francia, cercavo di rifare quello che veniva da lì: con il tempo ho capito che la vera forza sta proprio nell’abbracciare chi sei. La svolta è arrivata con il mio primo EP, italianissimo: lì ho sentito di aver fatto pace con la mia identità ed è stato liberatorio. Ho imparato a riconoscere quanto la nostra cultura possa essere una risorsa e non un limite.

Due domande che non mancano mai nelle nostre interviste: il tuo rapporto con i social e i tuoi suggerimenti a chi voglia diventare dj/producer o comunque lavorare a tempo pieno con la musica.
Il mio rapporto con i social è ok, sono quello che sono: una grandissima opportunità, ma possono essere anche una trappola. Sono una fonte infinita di ispirazione e intrattenimento, ma se non stai attento ti risucchiano, ci vuole un certo equilibrio mentale. Li uso per promuovermi – ormai fa parte del gioco, c’è poco da fare – ma cerco di farlo con equilibrio e nel modo più naturale possibile: ho anche impostato un limite di tempo giornaliero per evitare lo scroll infinito. Per me i social sono uno strumento: se impari a usarli senza farti usare, funzionano. A chi vuole fare questo mestiere direi: culo sulla sedia, lavorare, studiare, essere curiosi, fare tanta musica. Non basta un brano buono, ce ne vogliono cento, o cinquecento. Per il DJing è lo stesso: pratica, ricerca, esperienza. Servono anche predisposizione e orecchio, certo, ma le vere armi sono la costanza e la determinazione. Può sembrare banale, ma è la verità: tutto sta nell’attitudine mentale e nell’intenzione che ci si mette.

 

E per chiudere: cosa possiamo aspettarci da Sam Ruffillo nei prossimi mesi? Nuovi progetti, collaborazioni o sperimentazioni in arrivo?
In questo momento mi sto godendo ‘Tipo Così’, l’album appena uscito: mi sento ancora dentro quel mondo, voglio promuoverlo e farlo vivere il più possibile e non ho ancora riflettuto davvero sulla prossima mossa, credo ci vorrà un po’ di tempo. Ho però tante idee in cantiere: probabilmente un nuovo EP l’anno prossimo, e un altro EP con Kapote (il primo, Robot Salsa, è andato molto bene), sto anche lavorando a una label di rework/edit insieme a Fimiani. Ho parecchie direzioni aperte: in italiano, in inglese, strumentali… Per ora mi godo il momento, poi aspetto un segnale dall’universo per capire quale sarà la prossima tappa.

Sam Ruffillo: moniker o vero nome? E qualche info su di te: età, origini, dove vivi…
Sam Ruffillo è un moniker. Molti pensano che sia il mio vero nome. In realtà non è così e preferisco non dichiararlo, è più bello così, no? (no – ndr). Sono nato in Sicilia, a Catania, sul finire degli anni ’80, mettiamola così, e da molti anni vivo a Bologna.

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Dan Mc Sword
Dal 1996 segue, racconta e divulga eventi dance e djset in ogni angolo del globo terracqueo: da Hong Kong a San Paolo, da Miami ad Ibiza, per lui non esistono consolle che abbiano segreti. Sempre teso a capire quale sia la magia che rende i deejays ed il clubbing la nuova frontiera del divertimento musicale, si dichiara in missione costante in nome e per conto della dance; dà forfeit soltanto se si materializzano altri notti magiche, quelle della Juventus.
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