La scorsa settimana il Festival di Sanremo ha monopolizzato l’attenzione, un certo tipo di stampa e di critica. Quasi tutta. Inevitabile. Non ci rimane molto altro di cui parlare senza conseguenze. Tra i superospiti della 67a edizione c’era anche l’attore Keanu Reeves, reso celebre in tutto il mondo dal ruolo di Neo nella trilogia fantascientifica “Matrix”. L’intervista di Maria De Filippi scorre via senza particolari climax. L’attore racconta anche che la sua canzone italiana preferita è “Va bene, va bene così” di Vasco Rossi, perché sua sorella era fidanzata con un ragazzo italiano che le faceva sentire un sacco di musica nostrana. Mi piace la storia quindi ci credo. Keanu Reeves ha un passato da musicista rock. Negli anni novanta aveva pure una band, i Dogstar, con i quali ha inciso un paio di album tra il 1996 e il 2000, dei quali si è parlato principalmente per il peso del loro autore piuttosto che per la qualità della musica. Il palco dell’Ariston è un’occasione troppo ghiotta per non riaprire quel cassetto. Così l’attore imbraccia un basso e accenna un giro simil-grunge accompagnato da batteria e chitarra. Riprendo tutto con il cellulare e invio il video al mio amico Saturnino, scherzando sul fatto che lui, bassista di un certo livello, dovrebbe indignarsi di fronte ad un attore che sul più importante palco musicale televisivo italiano si mette a fare un mestiere non suo. Indignarsi, proprio come avrebbero fatto i dj, non tutti, ma tanti. La conversazione diventa un post sul profilo Facebook di Saturnino che invita ad un serrato e complicato dibattito.
Ha ragione Saturnino. Sembra che solo i dj si indignino quando vedono qualcuno di un altro mestiere fare il loro in pubblico. L’indignazione è ovviamente sfogata sul web, dove abbiamo imparato a scoprire come sia facile puntare la pistola alla tempia di qualcuno. Quando si parla di strumentazione “tradizionale” però, le cose cambiano radicalmente. La nobiltà del gesto, l’ipnosi da plettro, il fatto che visivamente ad un gesto corrisponda un suono: questi sono gli elementi per cui si perdona sempre e comunque qualcuno che suona uno strumento. E poi diciamocelo: in Italia i musicisti sono più sereni dei dj. Forse questi ultimi vivono ancora un complesso di inferiorità nei confronti della musica, perché si trovano sempre a giustificare e commentare quello che li riguarda, anche se nessuno glielo ha chiesto. A conferma di questo arriva la telefonata di Saturnino che mi esprime la sua felicità nel vedere un attore così famoso fare un pò di pubblicità al suo strumento preferito. “Che bello spot!”, queste le sue parole. Dai dj avrei ricevuto sicuramente messaggi e telefonate differenti.
Il processo di fronte agli strumenti musicali tradizionali non esiste. E meno male! Risparmio l’asciugata sul verbo suonare ad un’altra volta. Se invece un qualsiasi cristiano, più o meno famoso, prova minimamente a mettersi dietro ad una consolle, per selezionare della musica in pubblico scoppia un putiferio. Succede sempre. Da mio cugino al compleanno di mia zia a Robin Schulz al Festival di Sanremo di quest’anno e Lost Frequencies a quello dello scorso. Perché?
Quello del dj è un mestiere che fondamentalmente nessuno conosce bene, anche se sembra il contrario. È un mestiere nuovo, soprattutto in certe forme e per questo lo spettatore interessato si trova spesso confuso di fronte ad alcune rappresentazioni. Mi lascia perplesso il fatto che siano gli stessi “colleghi” e gli addetti ai lavori riluttanti a scagliarsi contro chi osa profanare la loro arte, dimenticandosi sempre del contesto in cui avviene. Solitamente sotto accusa finisce l’assenza di cablazione. Ma i secondi dovrebbero sapere che in televisione esistono regole di scena prima che di esecuzione (Moby nella sua bella autobiografia “Porcelain” racconta quando nel 1991 a “Top Of The Pops UK”, ha scoperto che in televisione si fa finta di suonare per esigenze di messa in onda), mentre i primi sono quelli che probabilmente in televisione non ci finiranno mai. Poi c’è la questione delle braccia al vento. Il bassista, il chitarrista o il batterista sono “protetti” dall’uso continuativo delle mani, che giustifica la loro esibizione. Ad un gesto corrisponde un suono. Questo non avviene per il dj che, una volta fatta partire la sua traccia, deve in qualche modo riempire lo spazio e il tempo. Il resto dipende dal cantante (se c’è) e soprattutto da quanto è bella la canzone. La presenza scenica è fondamentale per un dj quanto per un cantante. Fate caso alla gestualità e all’uso del corpo dei top dj. Niente è lasciato al caso. Fare finta in consolle è una delle cose più difficili che esistano. Provate voi a stare un’ora sul Main Stage di Tomorrowland, di fronte a migliaia di persone, mentre la musica scorre inesorabile e tutto il mondo vi sta facendo una radiografia. Ovviamente, come ho cercato di spiegare migliaia di volte, i top dj non fanno finta. Magari, in caso di particolari esigenze di spettacolo, possono aiutarsi con la tecnologia che oggi permette prestazioni più complesse (ricordate, non si parla mai di “più facili” al top level), ma questo non va a migliorare e peggiorare il loro lavoro. Se un dj set fa schifo, fa schifo anche con il sync. Un set meraviglioso lo è anche con qualche sbavatura.
Quello del dj è una mestiere della musica come un altro. Vive di varie fasi. C’è la fase amatoriale dove qualcuno si improvvisa dj alla festa di un amico, c’è la fase intermedia dove si prova a farlo diventare un lavoro, c’è la fase professionale dove produrre musica elettronica, fare il dj ai party e ai festival e fare promozione sulla stampa, in radio, e se capita anche TV, diventa la cosa che fai per vivere. Una cosa è certa: se sei in fase amatoriale o intermedia sul palco di Sanremo a presentare il tuo singolo, primo in tutto il mondo non ci sarai mai.
13.02.2017