La notizia è iniziata circolare sabato mattina, 30 gennaio. In maniera incerta: qualche tweet, qualche post sui social di amici e personaggi di giri musicali vicini a quelli dell’artista. Poi, purtroppo, la conferma: SOPHIE è morta. A causa di un incidente, nella notte, verso le 4, ad Atene, dove viveva. Il comunicato diramato dal team dell’artista non ha specificato che tipo di “incidente” ne abbia provocato la morte.
Il mondo della musica ha immediatamente invaso il web di tributi, status, post, link, insomma tutto il consueto armamentario di cordoglio social che ormai siamo abituati a vedere. Ma che, perdonerete lo sguardo disilluso e un po’ cinico, è un termometro affidabile non soltanto della popolarità in termini numerici, ma anche in termini emotivi, di “percepito”, come dicono i pubblicitari. E il percepito, cioè l’importanza e il peso di SOPHIE all’interno di una certa comunità musicale, era enorme. Era, è e sarà enorme. Perché Sophie Xeon, per tutto il mondo semplicemente SOPHIE, scritto tutto in caps lock, è stata una rivoluzionaria. È stata, è e sarà una rivoluzionaria. Una delle poche, a ben guardare, in un’epoca in cui fare le rivoluzioni sarebbe molto più facile che in passato, visto che tutti abbiamo un potenziale megafono costantemente tra le mani. Un’epoca che invece, i rivoluzionari li disinnesca facilmente. Facendoli diventare endorser, banalmente. O meme. O affogandoli in qualche shitstorm.
Ecco, SOPHIE è stata esattamente tutto meno che questo. È stata una guerriera con una corazza inscalfibile, un sorriso smagliante, due occhi accesi e intelligenti, e dei filtri perfetti. È stata una producer magnifica, innanzitutto, con un talento strepitoso. Capace di portare alla ribalta un’estetica musicale decisamente borderline, quella PC Music (nome di collettivo diventato poi sinonimo di uno stile) che da un lato flirta genialmente con l’arte, e dall’altro pericolosamente con tutta la corrente happy di certa eurodance ’90 non proprio passata alla storia per eleganza e sobrietà. Eppure, lì sul crinale, ha saputo regalarci gemme preziose, mai così ostiche da essere snob o difficili da affrontare, e mai così facilotte da scadere nel trash. Soprattutto, ha saputo costruire una poetica personale che va molto oltre la sua pregevole produzione musicale, vestendola di un immaginario visivo perfetto per gli anni ’10 e contemporaneamente avantissimo rispetto al proprio tempo. Arty ma pop. Un dialogo costante con il proprio pubblico, un pubblico amante del nuovo, della ricerca, dei riferimenti stilistici più evoluti. Eppure, è stata abbastanza forte da sfondare quel muro e diventare un act amato e seguito da molti, sempre più numerosi, seguaci. Che le hanno aperto le porte di un successo decisamente più ampio della nicchia d’origine. Aggiungiamo poi una qualità performativa fuori dal comune, l’ingresso nel salotto buono dei festival internazionali, la candidatura ai Grammys, le collaborazioni con personaggi come Madonna e Kendrick Lamar, e il quadro è completo. Anzi, no: va detto che SOPHIE è di fatto l’unica vera erede di quell’eletronica d’avanguardai che negli anni ’90 ha saputo arrivare sotto i riflettori del grande pubblico non solo senza snaturarsi, ma addirittura cambiando i connotati al pop: Aphex Twin, Squarepusher, Autechre. Proprio gli Autechre, aveva dichiarato, sarebbero stati gli unici acui avrebbe mai fatto remixare un suo pezzo. Detto, fatto: è uscita qualche settimana fa una versione di ‘BIPP’ proprio remixata dai suoi miti.
Ma c’è molto di più. SOPHIE è diventata giustamente un simbolo per molti. È una transessuale che ha portato la cultura queer e un discorso LGBT+ di nuova generazione a una quantità e un tipo di pubblico quasi mainstream. È un’artista transgender che ha saputo farsi portavoce e calamita di istanze importanti, urgenti, non più rimandabili, senza tirarsi indietro, ma nemmeno gettandosi a testa bassa in pasto al tritacarne che non perdona dei social e dell’opinione pubblica da web, affamata di miti da osannare e distruggere nel giro di un click. Anzi, i social li ha sempre tenuti a debita distanza, con un utilizzo tanto centellinato da sfiorare l’assenza totale. Anche qui: andare in una direzione contraria, ma farlo con garbo, con stile. E a darle credibilità è stata proprio quell’estetica elegante, quell’afflato artistico, quella sensibilità tesa a una perfezione stilistica che sono, semplicemente, fuoriscala. La bellezza portata in scena senza ombre. Una bellezza e un carisma così forti, così potenti, da essere irresistibili. Da conquistare anche il diritto di mettere sul tavolo il discorso della non-binarietà, della transessualità, di genere (o di non-genere, del superamento del concetto di genere) e delle lotte per dei diritti civili che sono improrogabili. Ma che possono diventare patrimonio comune solo se portate avanti da chi ne ha le capacità e sa come gestirne la delicata percezione pubblica. Non è un caso che moltissimi esponenti del mondo artistico queer abbiano scritto post in cui il dolore per la perdita di un’artista gigantesca lascia spazio a quello per la perdita di una leader indiscussa. E non è un caso che un personaggio apparentemento così di nicchia, così fortemente connotato e delineato all’interno di un certo tipo di mondo artistico, un mondo spesso chiuso, autoreferenziale e refrattario al “mondo vero”, sia stato invece salutato con affetto e con commozione da moltissime persone e da testate anche generaliste, solitamente poco interessate a ciò che succede appena sotto la superficie dell’ultra-pop. Grazie a SOPHIE, abbiamo tutti imparato a comprendere un mondo e delle prospettive che prima avremmo faticato a vedere in modo così limpido.
Con SOPHIE se ne va un’artista straordinaria, una leader generazionale, un meraviglioso sole capace di illuminare tutto. Impossibile non restarne abbagliati. Ci resta la sua musica. Ci resta il solco che ha tracciato. Ci restano le lacrime. Ma oggi it’s okay to cry.
01.02.2021