Spotify è sbarcata in borsa. La società svedese fondata da Daniel Ek nel 2008, che offre servizi di streaming musicale (e sta ampliando i propri contenuti), ha deciso di passare per il listino azionario. È successo ieri a Wall Street e il risultato è subito da record. Spotify ha scelto la formula del direct listing, una vendita diretta di titoli agli investitori che saltando il passaggio tra intermediari e sottoscrittori. Per chi non mastica le faccende di finanza, si tratta sostanzialmente di vendere direttamente i titoli a chi vuole comprarli, come bypassare l’agente immobiliare se volete comprare una casa. Con la differenza che qui si tratta di titoli azionari, e senza il supporto di un esperto la questione potrebbe rivelarsi rischiosa, se non si conoscono bene le regole del gioco. I numeri di Spotify al suo debutto in Borsa sono eccellenti, con una valutazione che si aggira intorno ai 24 miliardi di dollari e titoli che sono che si sono assestati ieri tra 137,50 e i 165 dollari. Dunque, quotazioni da record per un’altra delle aziende hi-tech di ultima generazione, come abbiamo già visto in passato per Facebook, ad esempio. L’eterna domanda sulla sostenibilità di un modello che basa fondamentalmente buona parte dei suoi servizi sulla gratuità potrebbe ora conoscere nuove risposte. I milioni di abbonati a Spotify sono cresciuti e sono in crescita, le strategie sono studiate sempre meglio e gli investitori non sono mai venuti a mancare, nonostante l’azienda sia sempre stata in rosso in questi primi dieci anni di vita.

Lo streaming musicale è un fenomeno controverso, perché da un lato tutti godiamo nell’usufruire gratuitamente di musica in modo legale (nessuno ci obbliga ad abbonarci ai pacchetti premium, basta pagare il dazio della pubblicità tra i brani), ma dall’altro le polemiche sulle retribuzioni e sulle cifre troppo basse delle royalties tengono banco da sempre. Sicuramente la musica non è più il business degli anni ’90, né per i musicisti, né per le case discografiche. Questo indipendentemente dall’avvento dei servizi di streaming. D’altra parte, la tecnologia ha accelerato tutto, e ci troviamo davanti a una proposta musicale senza precedenti per quantità: se prima arrivavano in pochi al traguardo, a pubblicare un disco, con tutte le spese e la cura del caso (studio, promozione, lancio, video), oggi il carico di investimenti si è notevolmente ridotto, e ciò ha dato la possibilità a quasi tutti di “pubblicare” in rete il proprio lavoro. Ma chiaramente il guadagno non è quello di Pharrell Williams o David Guetta, se non si fa la hit. Spotify paga poco o ci si lamenta delle royalties di Spotify a prescindere? Tre casi di successo “fai da te” li abbiamo proprio in Italia: Fedez, Ghali, Sfera Ebbasta hanno spaccato il web con quelle che possiamo chiamare auto-produzioni, un controllo quasi totale della filiera produttiva e dei diritti, e con abili mosse strategiche hano saputo massimizzare i profitti anche nell’era digitale “che non paga”. Ma sto andando fuori tema. Spotify si è quotata in Borsa, è arrivata con il tappeto rosso e ha fatto registrare numeri da record. Forse i numeri non sono tutto nell’arte, ma nel business, sì. E tocca fare i conti con la realtà: lo streaming è il presente della musica, a quanto pare quotato molto bene. Da qui si parte per il futiro del music business. Sarà sostenibile? Sarà un modello vincente? Le domande restano, la partita forse comincia davvero solo adesso, specchio di un’economia aleatoria e volatile. Quella che stiamo vivendo nell’epoca dei servizi avanzati.
04.04.2018