“Era già tutto lì, bastava solo guardare meglio”. Ha ragione Music Business Worlwide quando ammette che tutti gli elementi per prevedere la nuova, discussa mossa di Spotify erano già sul tavolo da mesi. Più precisamente dallo scorso luglio, quando Daniel Ek aveva offerto ai propri azionisti un’analisi sulle performance del secondo trimestre del 2019 e sul futuro dell’azienda affermando di “poter fare qualcosa di molto positivo sia per gli utenti che per artisti ed etichette […] dando a questi ultimi una soluzione per evitare di spendere soldi in ambienti non nativi in cui ci vogliono parecchi click per arrivare ad ascoltare il contenuto desiderato”.
Questa soluzione è stata resa pubblica la settimana scorsa quando Spotify ha annunciato che, per la prima volta, le etichette discografiche (e non solo) saranno presto in grado di pagare per assicurare visibilità ai propri artisti sui profili di selezionati fan attraverso un nuovo pop-up chiamato “Brand New Music For You”.

Dopo aver creato un ecosistema musicale virtuoso e soprattutto organico, l’azienda svedese offre ora la possibilità di pagare per comunicare ai propri fan l’uscita di un brano o di un disco particolarmente importante. Il pop-up interesserà sia gli utenti free che premium (anche se questi ultimi avranno la possibilità di disabilitare questa funzione, per adesso) e interesserà solo i fan più attivi di un determinato artista. In sostanza, quindi, la direzione in cui sta andando Spotify è quello della fidelizzazione dei super fan ai propri artisti di riferimento. Possono – speriamo – tirare un respiro di sollievo tutte quelle persone che temevano di essere assediate da annunci di release di cantanti o rapper da loro non attivamente seguiti.
Con un aumento di ben 5 milioni di utenti nell’ultimo trimestre – in totale sono 113.000.000 – e 248 milioni di utenti attivi ogni mese, il popolare servizio di streaming continua a macinare numeri impressionanti che, tuttavia, non sempre vanno a braccetto con guadagni altrettanto corposi. La logica è quindi quella di intercettare i corposi investimenti delle etichette (ma non solo, parliamo anche di publisher, management, pr, ecc) reindirizzandoli da ambienti “non nativi” come Facebook e Instagram – in cui servono diversi click e qualche secondo di troppo per arrivare dall’interazione alla fruizione effettiva – a un ambiente musicale in cui l’utente è già predisposto all’ascolto di un contenuto audio raggiungibile in un click.
Se questa nuova mossa vi sembra un ritornello già sentito è perché, in effetti, lo è. La pratica di accumulare dati e poi metterli a disposizione di chi è disposto a pagare per raggiungere efficacemente i destinatari delle proprie campagne è già stata utilizzata ottimamente da Facebook e Instagram (e cosa accadrebbe se anche WhatsApp entrasse in questa lista?). Vedremo se Spotify riuscirà nelle sue ambizioni finanziarie senza snaturarsi e diventare un ennesimo, goloso advertisting place. Si è aperta una nuova era del music marketing. Ne riparleremo.
30.10.2019