• DOMENICA 11 GIUGNO 2023
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Spotify e il caso Pre-Save: informazioni personali condivise con le major

Un'inchiesta di Billboard svela come Spotify condivida informazioni personali dei propri utenti con etichette e partner di terze parti attraverso un meccanismo legale ma totalmente privo di chiarezza

Il gigante svedese Spotify, che vanta più di 100 milioni di utenti Premium in tutto il mondo, rischia di far parlare di sé più per i suoi ripetuti problemi che per l’effettivo apporto che sta fornendo al mondo della discografia contemporanea. Negli ultimi mesi si sono susseguite decine di notizie riguardanti più fronti, sia interno che esterno: tra le più rilevanti possiamo citare la “crociata” contro i songwriter accusati di ricevere compensi più corposi del dovuto, alcune dimissioni di spicco come Adam Parness, Spotify’s Global Head of Publishing, valutazioni negative sulla sua quotazione in Borsa espresse da alcune agenzie di rating, perdite nette pari a 159 milioni di dollari nell’ultimo semestre, e un attacco hacker.

Nelle ultime ore si è aggiunta una notizia che sicuramente non contribuisce a migliorare la reputazione dell’azienda. Secondo un’inchiesta di Billboard, infatti, ogni volta che un utente si avvale dell’opzione Pre-Save – funzione tramite la quale l’utente può avere accesso immediato al brano/album non appena sarà disponibile sulla piattaforma – fornisce alle relative etichette più informazioni personali di quanto dichiara di voler fare. Le major, tra cui Warner, Sony e Universal, avrebbero immediatamente accesso alle informazioni personali degli utenti che includono e-mail, informazioni di contatto e vari dati relativi ad abitudini d’ascolto e playlist. All’atto di salvare preventivamente una canzone, EP o album, Spotify richiede in maniera visibile solo determinati permessi nascondendone altri all’interno di un piccolo menù a tendina che la maggior parte degli utenti ignora completamente. 

 

Chiariamo subito. “In tutto questo non c’è nulla di illegale”, afferma John Tinker, un media-analyst, “il problema è che nessuno davvero realizza [ciò che sta facendo] quando dà il proprio benestare a queste cose”. Citando come esempio l’ultima canzone delle Little Mix (esempio preso letteralmente da Billboard), si nota come l’unico permesso richiesto in maniera chiara e visibile sia quello relativo ad “aggiungere o rimuovere canzoni dalla tua Libreria”. Aprendo e sfogliando i sotto-menù della campagna Pre-Save Sony si notano però altri 16 permessi addizionali! Per citare artisti più mainstream, nella campagna Pre-Save relativa all’ultimo singolo di Chris Brown feat. Drake – non l’ultimo degli up-and-coming, quindi – tra i permessi “nascosti” si legge “Sony chiede il permesso di caricare immagini sul tuo profilo personalizzato o sulla cover della tua playlist e modificare chi segui su Spotify”. Ma ce n’è per tutti. Le campagne Pre-Save di Universal normalmente chiedono 10 permessi addizionali: nella campagna di ‘Ritual’, l’ultimo singolo di Tiësto, Jonas Blue e Rita Ora, viene richiesto perfino l’accesso alla data di compleanno dell’utente. Non proprio una cosa da niente, quindi. A maggior ragione se non chiaramente segnalata. 

Non vogliamo dipingere Spotify come non è, ma ci sentiamo di dire che la società svedese non sembra aver fatto molti sforzi in questi ultimi anni per rendere questo meccanismo più trasparente e chiaro – come invece hanno fatto altre aziende come Apple Music che negano l’accesso ai dati personali a terze parti. L’atteggiamento del gigante dello streaming non è stato assolutamente rispettoso nei confronti dei propri utenti e, come minimo, ora che l’ennesimo vaso di pandora è stato aperto, ci aspettiamo un netto cambio di policy e molta più chiarezza nei confronti degli utenti che a Spotify non affidano solo il proprio tempo libero (e soldi) ma un mondo fatto di emozioni e passione. Al prossimo capitolo.

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Michele Anesi
Preferisco la sostanza all'apparenza. micheleanesi@djmagitalia.com

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