Foto: Culoe De Song
È argomento ormai comune quello del multiculturalismo della scena dance. Se fino a qualche anno fa l’Europa sarebbe stata universalmente considerata il nucleo assoluto dell’hype dell’elettronica – sebbene la sua culla fosse comunque da ricercarsi oltremare – oggi le influenze che maggiormente condizionano il mercato del mainstream arrivano potenti da ogni angolo del globo. Il Sudamerica è territorio di reggaeton, il genere musicale che su tutti, negli ultimi cinque anni, ha avuto l’exploit più violento; l’India, avendo dimostrato di possedere un enorme bacino d’ascolto per sonorità electro/big room, ha saputo tramutare questo bacino in migliaia di presenza per un festival circuit davvero interessantissimo, oltre ad aver influenzato sonorità di hit come ‘Lean On’ di Major Lazer e DJ Snake, così come gran parte dei lavori successivi del francese. E ancora il k-pop della Corea del Sud, Singapore, Emirati Arabi, Australia. E l’Africa. La “culla del mondo” ha dato i natali – o le origini – a tantissime stelle del panorama musicale internazionale, certamente non limitatamente all’ambito della house, e per quanto riguarda l’intero continente ci sarebbe tantissimo da scrivere, ma la storia che sto per raccontare ha la sua lente d’ingrandimento sul Sudafrica, e in particolare su ciò che è accaduto nella nazione dal 1994 in poi. Il futuro passa da qui.
Il punto di partenza è quindi il 1994. In quest’anno, in Sudafrica, le elezioni vinte in misura schiacciante dall’African National Congress (ANC) di Nelson Mandela permettono al paese di iniziare finalmente ad edificare una società sudafricana in cui bianchi e neri coesistano con eguali diritti, e in cui l’oppressione e l’ombra scura dello Stato non aleggino sulle comunità etniche del paese. Oggi in Sudafrica si parlano undici lingue, e ad ogni lingua corrispondono diverse culture, suoni, tradizioni e generi musicali. In una società così inizialmente divisa, povera e corrotta, si è sviluppato un mappamondo di etnie che permette oggi al Sudafrica di essere una delle terre più influenti in ambito di house, per di più in scala globale. Le sonorità così fortemente tipiche – un miscuglio perfetto di groove con soul, melodia e voce – unitamente al fortissimo rilancio della deep house a livello internazionale e agli esponenti di enorme talento come Black Coffee e Culoe De Song (oltre agli stranieri che qualche anno fa hanno importato il sound di Chicago e Detroit), costituiscono la ricetta perfetta per rendere il Sudafrica meritevole della vostra attenzione.
Dalla fine dell’apartheid ai primi passi del Sudafrica in ambito house sono passati alcuni anni. Sebbene il paese non fosse più sotto regime e la legge non ostruisse più le libere espressioni artistiche, ci è voluto qualche anno (ed il problema non è ancora risolto) per allentare la tensione sociale sopravvissuta nelle maggiori città. D’altronde, non può essere un’elezione a spazzare via decenni di disuguaglianze sociali e corruzione. Ma sicuramente la gente ha voluto fin da subito esprimere il proprio sentimento di libertà. In città come Città del Capo, Johannesburg, Durban o Soweto nei primi anni ’90 iniziano a sorgere i rave, in cui i partecipanti – ben consci delle sonorità tipiche della loro terra – prediligono ritmi morbidi e percussivi ammutinando qualsiasi dj provi a suonare da queste parti la “roba spinta” che invece in Europa va per la grande. Da queste parti la musica deve esprimere sentimenti di serenità, speranza e pace. ‘Better Day’ di Charles Webster è un vero e proprio inno nazionale. Negli ultimi anni ’90 nascono le prime etichette sudafricane, come House Afrika e Soul Kandi, e grandi spazi abbandonati vengono rilanciati con eventi culturali in cui la componente della musica elettronica è ben marcata. La nuova democrazia del Sudafrica inizia a riversarsi nelle feste. Niente è più democratico, pacifista ed egualitario di un rave party: il miracolo politico di migliaia di persone che ballano in strada senza nessun AK47 puntato sulle loro schiene. Non a caso questo preciso periodo storico-musicale è stato definito The Apartheid After Party da importanti documentari dell’epoca (tra cui, più recente, consiglio “The Future Sound Of Mzansi”).

Foto di Chris Saunders
Qualche anno prima della liberazione di Nelson Mandela, erano già arrivate l’MDMA e l’LSD. A Città del Capo, in club come l’Eden, storico punto di ritrovo costruito in una ex fabbrica di gelati, le prime droghe sintetiche trovano rapida diffusione all’oscuro delle autorità e intanto le feste si moltiplicano, con ronde di bianchi e neri che controllano sulla porta che non intervengano forze dell’ordine. Dal 1990 in poi, queste feste hanno trovato libera promozione e il Sudafrica ha finalmente scoperto di possedere una viscerale rave culture, oro per gli stranieri che volessero importare qui l’house americana che in Europa stava facendo così tanta fortuna. I dj Vinny da Vinci, Graeme Hector e Rozzano Davis sono i primi a girare dischi al sapore di Chicago da queste parti, e la febbre dell’house a fine anni ’90 è così alta che quasi immediatamente va in voga una reinterpretazione tutta africana: il kwaito. L’idea nasce da due artisti, Oscar Mdlongwa (DJ Oskido) e Christos Katsaitis, che rallentano i BPM dell’house di Frankie Knuckles fino a 100 BPM e presentano il diluito e pitchato kwaito, che diverrà ben presto orgoglio culturale di una nazione. “Il kwaito rappresenta la prima onda culturale sudafricana che non fosse il risultato di un’imposizione, ma che anzi provenisse direttamente dal popolo” spiega Black Coffee in un’intervista di qualche anno fa, “è nato nelle strade e per questo tutti ci si sono da subito affezionati”.

Foto tratta da ‘Taxi Gqom’, documentario Youtube
La questione dell’identità è assolutamente cruciale in Sudafrica. DJ Spoko, pioniere assoluto dell’importazione house sudafricana (tristemente scomparso nel 2015 alla prematura età di 35 anni a causa di un male che lo ha tormentato per anni) e produttore della hit nazionale che è stata ‘Township Funk’ con Mujava (Warp Records, 2008), parla così a proposito dell’identità: “nei primissimi anni dopo la liberazione, si diffuse la passione per la musica elettronica, ma i produttori non avevano l’esperienza nè i mezzi per comporre beat nello stile di Dr. Dre o Snoop Dogg, fondati su bassi e sintetizzatori. Perciò la chiave è stata cercata in suoni più percussivi, concentrati sulle drums anzichè sui bassi, e distorcendo i kick regolari del sound americano in un beat sporco e irregolare”. Spoko ha lanciato la moda della cosiddetta Bacardi house, un genere musicale che risultava perfetto per quei rave party in cui l’alcol scorreva a fiumi e in cui i giovani potevano sfogarsi in balli incredibilmente ritmici e carichi di energia. È anche grazie a lui che nel paese si è diffusa la venerazione della figura del dj in ambito sia musicale che sociale. Black Coffee a proposito ha detto che “i primi dj in Sudafrica sono stati eroi nazionali”, proprio come lo è lui, che quando torna in patria viene fermato dai bambini e passa da tutte le TV; rincara Spoko, che definisce i primi dietro la console come coloro che “tutto il quartiere voleva imitare in stile di vita e attitudine”. La promozione dei primi grandi dischi house avveniva con i CD suonati sui taxi: se un tuo disco arrivava ai tassisti e questi sceglievano di passarlo nell’autoradio per i propri passeggeri, allora eri uno di quei ragazzi “cool” del quartiere, la cui musica era proponibile a tutti, e ben presto ti saresti guadagnato il rispetto da dj per ambire ai club delle grandi città.
Foto: DJ Spoko by TRUE PANTHER SOUNDS
Mentre Black Coffee rappresenta oggi il dj superstar nazionale, Spoek Mathambo è il perfetto esempio del crossover act che ha contribuito ad aumentare ancor più le influenze esterne sulla scena sudafricana: artisti come Stevie Wonder, Prince e Iggy Pop, così come tutta la scena hip hop statunitense, plasmano l’identità del giovane rapper e cantante della corrente da lui fondata – la township tech – in cui si fondono hip hop, rock e jazz avanguardista; uno stile nato dall’urgenza di sfogare tutta la paura e la rabbia impressa nei ricordi delle bombe, dei rapimenti e delle segregazioni. Questa urgenza si è ben presto riversata in diversi ambiti creativi, dalla musica alle arti visive e alla moda, e la scena sudafricana ha trovato ramificazione in molti altri movimenti: basti pensare, per citarne uno a caso, al lavoro di Waddy Jones con il duo rave rap dei Die Antwoord.
Foto: Spoek Mathambo sul set di ‘Control’
Un’altra corrente simbolo dello stato della cultura house in Sudafrica è il gqom. Quasi impronunciabile per chi non è pratico di accenti africani (si legge con uno schiocco gutturale complicatissimo per un occidentale), il gqom è un movimento che poggia le sue basi sulle ritmiche tradizionali degli Zulu, fuse con la potenza sub della bass, con l’hip hop e con una punta di groove house. Attualmente, è tra i bacini musicali più popolari in Sudafrica. Uno dei suoi pionieri, Asanda Gwala (aka DJ Lag), descrive il gqom come “la pura identità sudafricana” e ancora come “un suono oscuro, intenso e metallico, ideale per i rave più sfrenati”. Quello del gqom e del suo “broken beat” è un fenomeno interessantissimo perchè la sua primissima origine va ricondotta al web, ai social media, ai software pirata e ai file trasferiti via Blackberry. Un prodotto dei giovani, per i giovani. Vede la luce nel 2010, principalmente dalla cittadina di Durban – di cui è originario anche Black Coffee – e sorge come prima reazione alle tendenze “commerciali” dell’afro-house, del kwaito e della deep house di Culoe de Song e Black Coffee: tutto troppo morbido e sovraesposto. “Nasce dallo scomporre in elementi minimali tutte quelle correnti che vanno per la maggiore in Sudafrica” spiega Jumping Back Slash, produttore di origini britanniche che ha contribuito a portare il gqom ai massimi livelli, lavorando a fianco anche di Spoek Mathambo. “I poveri ragazzini che l’hanno inventato”, spiega, “non avevano Roland TB-303 dell’acid house per fondare un nuovo genere, quindi si sono arrangiati con qualsiasi strumento digitale capitasse loro sottomano, da versioni crackate di Fruity Loops a vecchissimi computer”. Oggi il gqom ha conquistato i dancefloor inglesi e viene proposto in sapiente misura dai dj più avanguardisti d’Europa. È il massimo esempio di movimento africano “do it yourself”, germogliato nei bassifondi della nazione. Semplicemente, l’underground firmata Sudafrica.
Foto: DJ Lag
Non solo correnti underground e ritmi spezzati popolano gli airplay sudafricani, oggi. Da quello stesso balcone del City Hall di Città del Capo, dove si affacciava Nelson Mandela per parlare ai cittadini dell’irreversibile marcia della libertà, oggi Jumping Black Slash lancia sulla folla il beat dei dischi gqom. È il Cape Town Electronic Music Festival, il maggiore festival elettronico della città e partner di Bridges for Music, associazione di beneficienza che tra gli altri ha avuto come partecipanti a Città del Capo gente come Skrillex, Richie Hawtin, Black Coffee, Four Tet, Luciano, Octave One e tanti altri, che si sono dedicati a panel, workshop e ovviamente dj set. Hawtin in particolare ha descritto il suo show a Città del Capo come “un ritorno alle origini primordiali, al clubbing dei sorrisi, degli abbracci e dei balli condivisi”. Skrillex è rimasto invece rapito dalla purezza del sentimento del pubblico sudafricano, che ha trovato in lui un grandissimo idolo. L’afro house nel circuito underground è il suono del momento e contamina i dj set di esponenti occidentali come Dixon, Ame, Solomun, la famiglia Keinemusik e davvero tanti altri. In Italia un importante lavoro (nato però dal Ghana) viene fatto dall’italiana MoBlack Records, i cui dischi sono supportati da gran parte della scena e che nell’estate 2019 troveranno sicuramente una forte conferma di credibilità. Dell’enorme potenzialità del Sudafrica, come pubblico e come scena artistica, oggi si è accorto anche un marchio come Ultra, che tra le tante “filiali” mondiali ha messo la bandierina anche a Città del Capo e Johannesburg.
01.07.2019