Boutique festival. Questa definizione elegante e un po’ paracula è andata indicando negli anni quei festival che puntano su numeri non eccessivi – talvolta modesti – e che fanno della qualità della proposta il loro punto di maggior attrattiva. Come dire, si punta sulla qualità più che sulla quantità, con inevitabili scelte di campo su line up, location, palchi, tipo di struttura e di pubblico. In molti casi però la “qualità piuttosto che la quantità” nasconde un mezzo insuccesso, un modo raffinato per mantenere dimensioni piccole non riuscendo a sfondare un certo muro di affetto da parte del pubblico. Non è così per Terraforma, festival che da sempre ha dichiarato di non avere alcuna intenzione di crescere a dismisura, quanto, piuttosto, di restare coerentemente e volontariamente entro una certa dimensione proprio per poter aderire nel miglior modo possibile alla missione che si pone fin dalla prima edizione: un festival sostenibile per l’ambiente, in cui musica, temi ecologici, attività artistiche e ricreative si possono unire per dare vita a un’occasione unica, una vera esperienza totalizzante. Collocato nella meravigliosa cornice del bosco di Villa Arconati, incantevole dimora poco fuori Milano, Terraforma presenta un format che ai dj set di stampo decisamente alternative aggiunge performance artistiche di alto livello, una cura particolare per cibo e drink e un mood molto smart, per utilizzare un termine un filo snob ma che sicuramente rende bene l’idea. L’edizione 2018 è stata un successo, i numeri crescono ancora e accanto a nomi decisamente “laterali” si è inserito un peso massimo come Jeff Mills. Ma non è tutto qui. A qualche settimana dal festival abbiamo tracciato un bilancio, e ci ha dato una mano in questo Gaetano Scippa, responsabile della comunicazione di Terraforma.

La prima domanda che ti faccio è proprio relativa all’edizione 2018 di Terraforma, la quinta, un piccolo grande traguardo che mi pare abbia un saldo decisamente positivo, no?
Sì, è così. Numeri alla mano, Terraforma è una realtà in crescita, non si tratta di cifre enormi ma significative: 8mila presenze, 2mila più dell’edizione 2017. Conta che la prima, nel 2014, ne registrò 2500. Un altro dato importante è quello del camping: 1500 presenze, con il 58% dall’estero. Terraforma è un festival che per sua natura non raggiungerà mai cifre da Tomorrowland o da Sònar, ma la crescita è costante e forte, segno che le intenzioni sono state recepite e che esiste un buon passaparola.
Hai detto che quasi il 60% di chi si è fermato in campeggio arriva da altri Paesi. C’è molto afflusso dall’estero? Dai Paesi limitrofi all’Italia o da tutto il mondo?
C’è un ottimo afflusso da fuori Italia. Il Regno Unito è il Paese che porta più spettatori al festival, seguito da Germania, Francia, Svizzera, Algeria, e poi Brasile, Australia, Giappone, e anche Libano, Iran… insomma siamo molto contenti, abbiamo registrato presenze da posti insospettabili. Il dato davvero positivo è che sono quelli che chiamiamo “migranti consapevoli”, un tipo di pubblico che viene per il festival, indipendentemente dalla line up o dai nomi noti, viene per il suo concept e la sua mentalità, un pubblico colto, rispettoso.

A proposito di nomi più o meno noti, parliamo del lato artistico: quest’anno accanto a conferme come Donato Dozzy e Paquita Gordon e a nomi in hype come Vladimir Ivkovic avete giocato un carico importante come Jeff Mills, apparentemente lontano dalle logiche del festival.
Jeff Mills è stato indubbiamente un nome di forte richiamo accostato al nostro festival, proprio perché anomalo rispetto alla nostra storia. Ma non è stato trattato da headliner né ci sarà mai a Terraforma il concetto di headliner. Lo abbiamo scelto per il suo percorso artistico, coerente con il nostro. Mills è da sempre un grande innovatore e uno sperimentatore, e quest’anno la sua presenza si sposava molto bene con il “mood cosmico” del festival, e parlo sia di line up sia, soprattutto, dell’immagine di Terraforma, dalla grafica alla comunicazione all’architettura dei palchi, completamente rinnovata e curata da Matteo Petrucci e dalla sua squadra che arriva dal Politecnico di Milano. Si tratta proprio di un team di architetti che ha lavorato al progetto ripensandolo e rimettendolo a fuoco. Mi sta a cuore sottolineare che per i lavori di manodopera, quindi falegnameria, carpenteria etc, abbiamo dato lavoro e messo in regola diversi migranti. Se Terraforma dev’essere un festival che guarda alla sostenibilità, crediamo che questo sia un segnale molto forte, proprio perché la sostenibilità è un concetto che parte dalla redistribuzione della ricchezza e del lavoro.
Tutto questo mi porta a farti la domanda più importante che ho in serbo: mi parli dell’idea e dell’identità di Terraforma?
L’idea che ha ispirato Terraforma è quella di un festival che potesse coniugare musica e ambiente. È nata da Ruggero Pietromarchi, ideatore e direttore artistico di Terraforma. Ruggero è una persona determintata e con una visione d’insieme molto chiara, talvolta può addirittura apparire radicale ma credo che questa sua perseveranza nel tenere una condotta ligia e ineccepibile sia una qualità indispensabile per fare in modo che Terraforma non tradisca i propri valori. Sarebbe facile, ora che il festival sta crescendo bene e ha molti riflettori addosso, cedere alle lusinghe di line up o format un po’ più trasversali, ma è proprio questa unicità uno dei punti chiave. Tradirla non avrebbe senso. L’identità è una conseguenza di tutto ciò: il pubblico si è accorto di quanto amore ci sia verso Terraforma da parte chi lo organizza e gestisce, certe scelte artistiche e scenografiche sono forse meno immediate per accattivarsi il favore delle persone ma già sul medio periodo si stanno rivelando giuste, e qui ci riallacciamo al fatto che il nostro pubblico è consapevole e preparato, due qualità che non hanno prezzo.

Come si resiste e si cresce con una proposta così peculiare?
Per crescere si lavora sulla cura artistica e sulle attività collaterali, sui servizi e su tutti gli aspetti extra-musicali. Le installazioni e le performance artistiche nello spazio del labirinto sono importanti quanto la line up strettamente musicale: per esempio abbiamo ospitato i Vipra, un collettivo romano che da Tor Pignattara sta facendo parlar di sè in tutto il mondo. Li abbiamo coinvolti con estremo interesse, sapendo che dopo Terraforma avrebbero portato la loro performance al MoMA di New York! Un altro esempio sono gli artisti che ogni anno vogliono tornare qui a suonare, come Donato Dozzy che ad ogni edizione propone un set al di fuori di ciò che ci si potrebbe aspettare da lui. Segno che c’è ormai grande confidenza con il festival e con il pubblico.
Mi parli del rapporto con Villa Arconati?
La Villa è un luogo mozzafiato, un patrimonio architettonico e culturale che non poteva essere snaturato con un festival di quelli che lasciano i resti da ricostruire, al contrario un contesto da trattare con cura e far apprezzare anche al di fuori dei nostri confini. Villa Arconati è gestita dalla Fondazione Augusto Rancilio, con cui Ruggero e tutti noi ci siamo interfacciati in modo da configurare la migliore soluzione possibile per svolgere le nostre attività nel rispetto della villa, del bosco, del parco e dei giardini, e anzi cercando di valorizzare un patrimonio di grande valore. Proprio per questo è la location ideale: Terraforma è musica e dj set, è migliaia di persone che ballano, mangiano, bevono, dormono in campeggio ma è anche installazioni artistiche, percorsi nel bosco, sessioni di yoga, sensibilizzazione verso l’ambiente.
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24.07.2018
24.07.2018