Trent’anni fa, il mondo ha iniziato a ballare sul serio. Un ballo completamente nuovo, per quelle che erano le note ad accompagnarlo, i protagonisti del ritmo, il contesto sociale, gli scenari. Era il 1987 quando i britannici Nancy Turner, Paul Oakenfold, Nicky Holloway, Johnny Walker e compagnia si ritrovarono sulla stessa isola a ballare la stessa, rivoluzionaria musica. La chiamavano Balearic house ma nessuno è mai davvero riuscito a dare una definizione a quel sound che ogni estate veniva proposto da Alfredo Fiorito, Josè Padilla e Leo Mas. Quel che era sicuro è che tornati a Londra, non potevano smettere di parlarne. Delle sue maestose albe, delle grandi feste, dell’Amnesia, del Ku e dello Space, del puro edonismo, dei suoi colori. Tra il 1987 e il 1988, Ibiza è quanto di più hippie esista in Europa. A tal proposito si è espresso Josè Padilla: “lo spirito hippie è basico perchè si ispira ai valori più semplici a cui l’istinto naturale ci introduca, come l’aria aperta, la luna, le stelle, la danza e la buona musica: in tutto ciò si riassume l’isola di Ibiza”. È questa essenza ad aver dato il nome di “Second Summer of Love” a quella magica estate del 1987, erede di quella di San Francisco datata 1967, quando la giovane generazione americana decise di ribellarsi al conflitto in Vietnam attraverso pace, amore e musica. Sono gli ultimi anni ’80, l’Occidente viveva la fine della Guerra Fredda, il grande circuito dei festival non era nemmeno pensabile, i super club di tutto il mondo al massimo potevano essere una bella fiaba da raccontarsi sotto LSD. Niente YouTube, niente Facebook, niente DJ Mag.

Un paradiso del genere poteva essere tramandato solo a parole e per questo la mania divenne replicarlo nel Regno Unito. Pioniere assoluto si fece Paul Oakenfold, nel suo Spectrum, un locale asessuato in cui si potevano sperimentare le novità di questa incredibile vibrazione che dagli States arrivava col nome di house music, ma anche lo Shoom di Danny Rampling e i free party firmati Hedonism di Nicky Trax. E qualche anno più tardi, il Cream, il Clockwork Orange, il Ministry of Sound. Il club non è più rifugio dall’austerità delle leggi anti-homo, ma è pur sempre luogo di sfogo. La derivazione preferita dagli inglesi è l’acid house, di cui è consigliata la degustazione con una sana e divertente pillola d’ecstasy. D’altronde ci sono tanti motivi per sorridere. Di lì a poco, nel 1989, cade il muro di Berlino, le barriere tra i popoli d’Europa iniziano ad assottigliarsi e nascono nuovi linguaggi unici. La dance è uno di questi, fin da subito. Per le vie della capitale tedesca ballano un milione e mezzo di persone sulle note di Carl Cox e degli altri carri della Love Parade. La giovane generazione dei primi anni ’90 sente un bisogno irrefrenabile di amarsi, stringersi, lasciar andare i propri muscoli in nome di un sentimento nuovo, viscerale e collettivo. È una generazione reattiva, e storicamente ad ogni grande reazione generazionale ne è corrisposta una artistica su scala globale. “Clubbing used to be black or white, now it is technicolor”.
In un’intervista di qualche anno fa, Mike Pickering, lo storico resident dell’Haçienda di Manchester – tempio sacro di acid house ed acid rock nella stagione 1988 e 1989 – parla di un triennio di “amore e condivisione come mai visto prima” e ancora: “un nuovo sentimento travolse le vite di tutti, che sostanzialmente non furono più le stesse“. I locali chiudevano intorno alle 3 di mattina, ma l’ecstasy non conosce closing time e i balli proseguivano per le strade delle grandi città britanniche. Non ci volle molto alle autorità per scoprire cosa stava succedendo. Un nuovo movimento giovanile, apolitico quanto edonista, stava interessando gli adolescenti inglesi in maniera preoccupante. La moda si era diffusa in gran parte d’Europa, e la stagione dei rave party sorgeva parallelamente anche in Francia, Italia e Germania. Perfino oltreoceano, dove pareva si fossero dimenticati di essere i veri pionieri di tutto ciò, si cominciarono ad uniformare con raduni come quelli dei ragazzi PLUR di New York, o il Sexstasy di Los Angeles. La grande festa della Second Summer of Love sembrava non voler finire. Ad un certo punto però, anche l’Estate dell’Amore ha visto il suo capolinea. Nel ’99, su BBC Radio 1, Danny Rampling parlava del continuo “stato di invasione dell’isola di Ibiza”, riferendosi alla rapida trasformazione della Isla Blanca in “clubbing destination”, come piace chiamarla ai britannici. Alfredo Fiorito lo ha ammesso da subito: “ciò che di speciale ha avuto quel triennio di Ibiza erano i ragazzi che venivano. Non i locali, non del tutto la musica, ma coloro che ne facevano parte”. Sarebbe comunque inaudito giudicarla come un fallimento, o un temporaneo miraggio. Come disse il promoter Wayne Anthony, in termini di apertura alla sessualità e chiusura alle discriminazioni di razza o classe sociale: “ha fatto più l’MDMA in quegli anni che qualsiasi altro governo nei precedenti e successivi“. L’acid house della Summer of Love ha influenzato l’arte, il cinema, la scrittura. Ha posto le basi di un movimento finalmente globale, che si sarebbe sviluppato più di un decennio dopo ma che senza dubbio vide le sue basi valoriali proprio in quel magico biennio.

Quando qualcosa di bello inizia a non funzionare più, l’impulso automatico è quello di guardare al suo passato. “In questo grande movimento musicale ci siamo tutti quanti. Insieme. Dov’è finita l’unità? La fratellanza e la sorellanza? Coloro che lavorano con la musica sono le persone più fortunate del mondo eppure ultimamente assistiamo ad una globale tendenza alla manomissione, all’insulto, al fare la guerra a qualcuno. La musica nasce per portare le persone al rispetto reciproco, non per il contrario” scriveva su Facebook – in maggio 2018 – Gary Richards, pioniere del circuito festival americano, in merito all’umore attuale dell’industria dance. Proprio sulla base di queste parole viene voglia di raccontare e spiegare cosa è accaduto nel 1987 in quella magica isola, e nelle strade di Londra. Viene voglia di parlare di Alfredo, Josè, Leo, Tony, Paul, Pete, Mike, Tommy. Dei dischi, del sentimento, della misticità con cui la musica elettronica è stata vissuta per qualche tempo, ponendo le basi di un culto che è rimasto saldo per decenni. Il livello qualitativo della scena attuale è notevole, ma probabilmente non si può dire altrettanto di quello creativo. L’estate 2018 non ha avuto la sua dance hit; la prima riga delle line up dei grandi festival non cambia da cinque anni; il turismo del clubbing sta facendo ombra sull’appartenenza al club; alla musica ci si abbona, gli acquisti sono sempre più rari. I grandi dj compaiono in console come ectoplasmi, stelle di un’altra galassia, e spariscono dal locale in tempo per il prossimo jet. Necessario e pacifico sui palchi con le telecamere, ma da quant’è che non partecipiamo ad un party “underground” in cui i presi male vestiti in nero non siano la maggioranza? C’è bisogno di un punto a capo, di un reset: di ritrovare lo spirito da cui tutto è nato, arricchire i dancefloor e i retroconsole di sorrisi autentici, di colore, di vera emozione. Ci stiamo avvicinando, nell’aria c’è già qualcosa. Ma forse ciò di cui la scena davvero ha bisogno è una nuova Summer of Love. Ma, ormai e semmai, se ne parla l’anno prossimo. Buon capodanno a tutti.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
07.09.2018
07.09.2018