Esce oggi il video del nuovo singolo dei Prodigy, “Nasty”. Potrei stare qui a scrivere un trattato di duemila pagine su di loro: negli anni ’90, giusto vent’anni fa per essere precisi, hanno stravolto la mia idea di musica dance; ero un teenager attratto come una calamita dalla cassa in quattro di house, techno e dai suoni più duri di certa trance e dell’hardcore (quella di stampo UK). Nel 1994 mi capitava di ascoltare pezzacci come “Poison”, “Voodoo People” nel Deejay Time, poi arrivò “No good (start the dance)” e la mia visione della musica da ballo, della musica in generale, non fu più la stessa. Rave music, rave culture, un cortocircuito nella mia testa. Le voci pitchate, i synth acidissimi, la battuta veloce (sui 140 bpm) e quei break di batterie irresistibili. Ciao. i Prodigy diventarono i miei eroi, e “Music for the jilted generation” uno dei miei album di culto.
Nel giro di un paio d’anni da quel ’94 – che oltre ad essere molto significativo per me, lo fu soprattutto per la scena dance, che raggiungeva vertici di altissima popolarità in ogni sua accezione, dalla house più raffinata alla gabber fino agli stili più alternativi come la drum’n’bass – esplose il fenomeno del big beat. The Chemical Brothers, Fatboy Slim, The Wiseguys, Propellerheads, Lo Fidelity All Stars sono alcuni dei nomi che fecero dell’ibridazione di dance, funk, rock e cultura del campionamento un genere di larghissimo consumo, coniugando grande qualità delle produzioni, senso della novità e facile fruibilità da parte del pubblico. Qualcuno si fermò alle hit one-shot, qualcun altro diventò un fenomeno di costume (i 250mila del Big Beach Boutique di Fatboy a Brighton), altri ancora diventarono delle leggende (i Chems). In ogni caso, era la lezione dei Prodigy resa più pop e meno hard(core). Loro, invece, cavalcarono l’onda che avevano contribuito a creare pubblicando il disco che li sdoganò al mondo: era la primavera del 1996 quando “Firestarter” devastò radio e classifiche di mezzo pianeta; poi toccò a “Breathe” e l’anno successivo arrivò l’album della consacrazione, “The Fat of the land”, best seller mondiale. La formula si era fatta più rock, con chitarre distorte, un frontman come Keith Flint che all’epoca sembrava uscito da una puntata di Ken Il Guerriero versione post-rave, collaborazioni con strambe band brit pop tipo Kula Shaker e una capacità unica di mantenere la durezza del loro sound ma portandolo dentro la forma-canzone. Come dire, i Nirvana virati elettronica (prima che si levino grida di scandalo ideologico, posso assicurarvi che se avevate quindici anni a metà ’90, non era raro pogare su “Smell like teen spriti” e “Firestarter” nella stessa serata). Aggiungiamo dei video di forte impatto visivo, su tutti il clamoroso “Smack my bitch up” girato da Jonas Akerlund, davvero innovativo per i tempi (una cosa che nella nostra generazione viene ripresa in certe suggestioni di Salmo e Machete Crew, anche se là c’era molta meno ironia e distacco) ed ecco che il mito era sorto.
https://www.youtube.com/watch?v=BFxaDoyl-1s
Poi l’implosione, tra cazzeggi vari, scuderie di motocross (Keith Flint), i progetti solisti mai davvero conclusi di Liam Howlett, vera mente e vero genio della band (resta il sensazionale e un po’ sottostimato “Dirtychamber Sessions”). Nel 2004, davvero fuori tempo massimo, i Prodigy tornano timidamente con un album fuori fuoco, molto atteso e molto deludente per i fan. Il singolo è “Baby’s got a temper” e non convince (a me piaceva, con quell’autocitazione di “Firestarter”).
Sembra finita, ma ecco che i ragazzi tornano in pista alla grande con una raccolta e un remix micidiale di “Voodoo people” dei Pendulum, ancora più violento e massiccio dell’originale. Ed ecco la gioiosa macchina da rave tornare in scena.
Nel 2009 arriva poi il quinto album “Invaders must die”, che ricalca il vecchio stile in bilico tra rock e rave, con qualche spruzzata di dubstep violento e drum’nbass new school. Il tutto condito da una serie di show che ormai sono imprescindibili, generazionali, eventi da mega festival. Con tanto di elementi live, con i musicisti a portare finalmente la band a una vera dimensione da concerto (nel frattempo Leeroy Thornill ha abbandonato il gruppo, lasciando dunque il terzetto Liam-Keith-Maxim).
Certo, l’autocitazionismo e la ripetizione di una formula ormai stabilizzata sono evidenti, anche nel nuovo “Nasty” (qualcuno con sarcasmo dice che sembra un vecchio unreleased degli anni ’90), che ovviamente ha già un altissimo hype ma non aggiunge nulla che non conoscessimo allo stile del gruppo. Tutto sta in piedi grazie all’abilità di Liam Howlett in fase di creazione e produzione. Ma quando un esperimento del genere, nato campionando cartoni animati in un singolo d’esordio che riuscì a spaccare le classifiche inglesi (“Charly” del 1991, con quel synth poi a sua volta campionato mille volte) e classici reggae (“Chase the devil” di Max Romeo in “Out of space”) si impone, diventa pop, diventa fenomeno di massa ovunque, e resiste per quasi venticinque anni a questi livelli, c’è solo da rendere omaggio. Senza aprire il capitolo delle influenze che il gruppo ha avuto su moltissimi act venuti dopo, sulla strada che hanno aperto per tutti gli ibridi di live e dj set nati negli ultimi dieci anni e su quanto il loro successo abbia contribuito a lanciare e rendere robusta la XL Recordings, etichetta che pubblicava i loro dischi e che è poi diventata il colosso che sappiamo. Bentornati Prodigy, aspettiamo l’album (con aspettative non altissime, ma tanta speranza in belle sorprese)!
13.01.2015