Sono le quattro di pomeriggio quando, come da accordi, telefono a Tiga James Sontag, conosciuto al grande pubblico semplicemente come Tiga. Mi risponde assonnato dicendo che a Montreal sono le dieci di mattina e che si è appena trascinato in studio per una lunga giornata di produzione e mastering. Il tono sicuro della voce fa subito intendere che l’artista canadese è una persona di carattere, una di quelle che le interviste te le rendono facili e interessanti perché sa di cosa sta parlando e non ama troppo i giri di parole.
Ciao Tiga, vorrei partire dal tuo post a seguito della serata che si è svolta a Roma poche settimane fa. E’ stato un fulmine a ciel sereno vedere un dj del tuo calibro aprire all’autocritica in modo così appassionato e genuino.
Genuino fino a un certo punto. Sui social network nulla è autentico fino in fondo. (ride n.d.r)
Diciamo allora che non è bastato un semplice filtro di Instagram per rendere le tue dichiarazioni meno efficaci.
Assolutamente. Non mi aspettavo che quel post suscitasse così tanto clamore. Mentre lo scrivevo pensavo semplicemente che avrei dovuto raccontare ciò che stavo provando in quel momento. La serata vista da occhi esterni è andata bene, il locale era pieno, il soundsystem ha fatto il suo dovere, l’unica nota stonata sono stato io. Questo perché nonostante essere un dj sia una cosa che sento dentro reputo che comunque si tratti pur sempre di un lavoro che va svolto con professionalità fino all’ultimo. Un dj ha la possibilità di rendere un party meraviglioso o orribile e io quella sera non mi sentivo di aver dato un valore aggiunto. Tornando in albergo ci ho riflettuto molto e poi il resto della storia la conoscete.
Come mai così tanto clamore a tuo avviso?
In un’epoca come questa dove possiamo scegliere di mostrare solo il nostro volto migliore al mondo è molto facile cadere nella tentazione di costruirsi l’immagine degli eterni vincitori. Si scatta una foto ad un dancefloor con trecento persone, si cerca l’angolazione giusta, l’effetto carino ed ecco che una pista semivuota diventa un delirio infernale a cui aggiungere didascalie come “it was huge”, “bomb!” e così via. La cosa preoccupante è che a furia di sostenere questa menzogna mediatica perfino chi la racconta si convince che questa sia la verità ed è lì che si crea il cortocircuito.
In quel momento che sensazioni hai provato?
Sai, ho sempre creduto che nel mondo dei dj ci sia un dio o una sorta di karma che si manifesta quando meno te lo aspetti. Succede, e mi è successo soprattutto agli inizi, che dopo tre, quattro serate poco riuscite ti ritrovi lì a pensare di mollare tutto ed è in quel momento che questo karma ti regala la serata perfetta, una di quelle che ti danno energia per continuare a fare questo mestiere ancora per tanti anni. Non ho provato tristezza o delusione, ho solo pensato che dovevo essere onesto con me stesso e con il pubblico ed impegnarmi per far sì che ciò non accadesse nuovamente.

Per una serata in cui non sei stato soddisfatto di te stesso ce ne saranno state altre dove invece avrai dato il famoso valore aggiunto recentemente.
Ci sono stati molti show ben riusciti quest’estate, in particolare il Sunday Brunch di Barcellona e i miei recenti back to back con Seth Troxler e i Martinez Brothers.
E in serate come queste, dove c’è una responsabilità condivisa, come cambia il tuo modo di suonare?
Il back to back è un momento facile e complicato allo stesso tempo. Facile perché se le cose non vanno come vorresti puoi nascondere parte delle tue responsabilità, difficile perché devi trovare un buon equilibrio musicale. Io lo vedo per quello che é, ovvero un momento dove poter proporre musica che di solito non riesco a mettere. Ho librerie piene zeppe di musica che studio quando so che devo esibirmi con un altro artista. Se suono con Seth so che dovrò farlo in un certo modo, se suono con i Martinez un’altro ancora così come quando ho suonato con Black Madonna. Al Sonar proprio con Seth credo che abbiamo fatto un ottimo lavoro, siamo stati attenti l’uno all’altro e non abbiamo ecceduto nella competizione, anche se ogni tanto inconsciamente parte la sfida a chi mette il disco più bello. Inoltre in nessun back to back suonerò mai un mio disco. Sarebbe davvero presuntuoso lasciare un mio collega al mixer con un mio vocal in sottofondo, non lo sopporterei.
Nella tua carriera hai attraversato diversi momenti chiave della scena club, passaggi storici in cui esistevano generi dominanti e generi di nicchia. Oggi però nessun suono sembra prevalere nettamente sull’altro nel mondo della musica elettronica. Cosa ne pensi da dj e producer?
Sono stupito da questo continuo revival a cui si prestano anche e soprattutto i più giovani. Va bene mettere un disco old school durante una serata ma fare un intero set basato sulla musica del passato? No, non penso sia interessante e utile per nessuno. Quando iniziai a frequentare e organizzare rave nei primi anni novanta nessuno dei miei coetanei si sarebbe sognato di ballare la musica dei propri genitori. Quei party erano un momento di rottura, di ribellione, qualcosa di culturamente e socialmente rilevante, non divertimento fine a sé stesso.
Il fatto che molti ricerchino la musica del passato senza guardare al futuro può essere determinato dall’assenza di una lotta sociale importante per queste generazioni?
Certamente. Oggi ci sono conflitti basati sull’ego, sui like, su questo vestito o quell’altro. Combattere per cambiare delle regole crea stimoli costanti, crea passione ed innovazione perché non ci si riconosce più nei valori della generazione precedente.
“Quando iniziai a frequentare e organizzare rave nei primi anni novanta nessuno dei miei coetanei si sarebbe sognato di ballare la musica dei propri genitori. Quei party erano un momento di rottura, di ribellione, qualcosa di culturamente e socialmente rilevante, non divertimento fine a sé stesso.”
Un esempio lampante mi sembra quello degli Stati Uniti dove il movimento “Black Lives Matter” e le costanti frizioni razziali hanno dato la spinta per un rinnovamento importante nell’hip hop.
Esempio calzante. Dove c’è l’esigenza di affermarsi e autodeterminarsi nasce qualcosa di nuovo. Poi bisogna considerare che quando nei primi anni ’90 iniziai a fare questo lavoro la musica era un elemento fondante della vita di ogni ragazzo. La musica determinava chi si era, chi si frequentava, come ci si vestiva. Era un elemento cardine per ogni ragazzo che affrontava l’adolescenza. Oggi la musica ha perso molto di quel potere di fascinazione e solo chi la vive ancora con grande passione si comporta come in quelli anni.
Oggi che rapporto ha Tiga con la musica, soprattutto quando ti siedi in studio?
Cerco sempre di trovare quella scintilla che mi permetta di creare qualcosa di nuovo. Da un lato c’è la consapevolezza che non sono più l’artista di “You Gonna Want Me” o “Sunglasses At Night”, dall’altro voglio evitare l’ossessione di creare qualcosa di nuovo ma sterile, vuoto e che non emozioni. Alla fine resto sempre un dj e se il pubblico non balla o non ascolta attentamente ho fallito in quello che faccio. Ti garantisco che non è facile uscire dalla propria “comfort zone”. Ci sono tanti dj/producer che non fanno altro che alimentare questo circolo vizioso. Campionano un vecchio disco, in due ore fanno una traccia chicago house, il disco esce, vende qualche copia, si guadagna qualche booking e si continua con questa inerzia. Il sistema oramai è strutturato in questo modo ma io dentro questi meccanismi non ci voglio finire, piuttosto rinuncio a qualche data.
E in tutto questo la tua label, Turbo Recordings come procede?
Molto bene, a breve ci sarà un nuovo EP mio assieme ad Audion, l’uscita di alcuni rookie interessanti tra cui l’inglese Billy Turner ed il ventennale della label il prossimo anno.
State preparando qualcosa di speciale per quest’occasione?
Sì, ci saranno una serie di showcase, credo quattro, in cui festeggeremo insieme a tutte le persone che hanno contribuito a questa incredibile avventura. Inoltre sto preparando un live che spero di portare in scena nel 2018. Coinvolgerò altre persone per gestire più macchine possibili sul palco e penso che sarà molto figo provare a sintetizzare vent’anni di storia della label e venticinque circa di mia carriera come dj.
E’ un progetto che stai seguendo da molto tempo?
A dirti la verità no. Mi ha telefonato un giorno un mio collega che gestisce l’ufficio dell’etichetta e mi ha detto: “Ciao Tiga, sai che l’anno prossimo compiamo vent’anni di Turbo?” e io gli ho risposto: “Davvero? Allora dobbiamo preparare qualcosa di nuovo!” e da lì è nato tutto. That’s it!
23.08.2017