Foto: Bernard Benant
Tony Oladipo Allen si è spento ieri a Parigi. Aveva 79 anni, ne avrebbe compiuti 80 il prossimo 20 luglio. È stato uno dei più grandi musicisti di tutti i tempi, un batterista straordinario e l’inventore di quella grammatica ritmica che chiamiamo afrobeat (stile nel quale coesistono molti altri elementi, naturalmente, ma la sua ritmica è stata fondamentale per lo sviluppo del genere).
Nato a Lagos, in Nigeria (oggi la terza città più popolosa del mondo) nel 1940, Allen è batterista fin da giovanissimo e nel corso del tempo il suo strumento diventa una sorta di alter ego dell’uomo. Una simbiosi totale. Negli anni ’60 incontra un altro gigante della musica, Fela Kuti, anch’egli nigeriano – la storia di Kuti è una delle più incredibili parabole artistiche e umane del 20esimo secolo: musicista, attivista, politico e simbolo di un continente – ed è come mettere insieme accendino e dinamite. Nasce l’afrobeat, prima con i Koola Lobitos e poi con il progetto Africa 70. Nello sviluppo del genere, la batteria di Tony Allen è un elemento essenziale: il suo drumming è così tipico da diventare un marchio di riconoscibilità immediata. È come quando davanti a un quadro si riconosce immediatamente la mano dell’autore, e si esclama”Picasso!”, “Van Gogh!”, “Caravaggio!”. Di quanti artisti si può dire una cosa simile? Molto pochi. Inoltre, la batteria non è la tela di un pennello e nemmeno una chitarra, è ancora più difficile farsi riconoscere stilisticamente in modo così marcato e immediato. Ecco, Tony Allen aveva questo dono. E ha scritto, appunto, una grammatica. Dalla quale sono nate tante altre meraviglie. Anche perché Allen, direttamente e indirettamente, è responsabile di molta della musica che amiamo: non a caso è il batterista “prediletto” di molti dj e producer in zona techno e dintorni.
Dagli anni ’90 la sua fama, già consolidata dopo le avventure nelle band di Fela Kuti, si allarga, e si apre la grande stagione delle collaborazioni. Tutti lo cercano, lui non vede l’ora di suonare, ama suonare, non fa calcoli e menate di sorta e fioriscono alcune combo strepitose. Su tutte, la più nota è il supergruppo The Bad, The Good And The Queen con Damon Albarn, Paul Simonon dei Clash, Simon Tong dei Verve e la produzione di Tony Visconti. Ma anche il bellissimo album ‘Inspiration Information 4’ insieme a Jimi Tenor, i dischi con Allenko Brotherhood Ensemble, quelli con Roy Ayers, con Doctor L, le batterie in un paio di brani di ‘5:55’ di Charlotte Gainsbourg, le collaborazioni con Amp Fiddler, Gonjasufi, ‘In Italia’ con Jovanotti e una miriade di altri progetti che diventa difficile menzionare senza dimenticarne qualcuno. Nel 2017 pubblica ‘The Source’, album che ritiene fondamentale nella sua vita artistica. Nel 2020, giusto un mese fa, a fine marzo, esce ‘Rejoice’ insieme a Hugh Masekela, a sua volta scomparso nel 2018. Disco che assume i connotati di un testamento artistico di due grandissimi della musica.
Tony Allen è stato fonte di ispirazione per tantissimi dj e producer, è considerato una figura quasi sacra per gente come Carl Craig, Ricardo Villalobos, Moritz von Oswald, Jeff Mills (con cui aveva messo in piedi anche un progetto live). Parecchi sono i remix dei suoi brani in circolazione, e in molti casi il DNA della techno, e la sua origine così africana, se parliamo di ritmica, è emersa con forza nei lavori di chi ha scolpito nuove versioni dei suoi pezzi. D’altro canto, il drumming di Allen è genitore di un modo di intendere la ritmica che parla una lingua proto-house e proto-techno, è influenzato e influenza il funk e in certa misura la disco, con cui parla un linguaggio comune, e l’afrobeat è senza dubbio la musica dance prima delle macchine.
Se ne va un mito della musica. E sicuramente, un genio, uno che ha inventato qualcosa di grande.
01.05.2020