Domenica notte i Daft Punk si sono esibiti ai Grammy Awards insieme a The Weeknd. Quest’ultimo ha cantato mentre i Daft, di fatto, si sono limitati a comparire con una barra luminosa in mano, inserendola in una macchina non ben definita che ha “acceso” la strumentale di ‘I Feel It Coming’, brano da loro prodotto per The Weeknd, appunto. Un classico mezzo playback, per usare un’espressione da gergo televisivo. Voce live, base registrata. Tuttavia, molta dell’attenzione e buona parte dei giudizi letti sui giornali, sulle testate online, nei commenti social lunedì mattina erano rivolti ai Daft Punk. Fantastici, deludenti, intriganti, divertenti. Pareri spesso molto contrastanti. Ovvio, rispetto alla performance del 2014 con Stevie Wonder, Pharrell e Nile Rodgers, il tiro è decisamente meno ambizioso. Ma si sa, ormai è impossibile sfuggire alla polemica, qualcuno si offende sempre e ognuno si sente in dovere di dire la sua. Il fatto è un altro. Comunque vada, i Daft Punk fanno parlare di sè. Hanno addosso un interesse così forte che ogni loro mossa diventa motivo di grande attenzione e di dibattiti. La loro mostra-negozio a Los Angeles è già un successo; il loro shop sul sito è stilosissimo. Persino le bufale sui loro tour sono puntualmente oggetto di hype enorme. Perché?

Perché i Daft Punk sono riusciti a compiere il miracolo che tutti vorrebbero riuscire a realizzare: diventare venerati maestri. È il paradigma dello scrittore Alberto Arbasino: “c’è un momento stregato in cui si passa dalla categoria di brillante promessa a quella di solito stronzo. Soltanto a pochi fortunati l’età concede poi di accedere alla dignità di venerato maestro”. Il riferimento era al mondo della letteratura italiana, tuttavia mi sento, oggi più che mai, di estendere questa considerazione a tutto il mondo dell’arte, e quindi anche della musica. Ovviamente la brillante promessa, se ha la fortuna di mantenere tale promessa, attraversa un periodo in cui “stufa”, e diventa appunto il “solito stronzo”. Il problema è che oggi tutti sono chiamati alle armi ogni giorno: Instagram, Facebook, qualche video per i fans, i selfie, la continua pubblicità di sè, una traccia in free download ogni tanto per non far passare troppo tempo tra un singolo e l’altro. Non ci si fa mancare nulla. Un rumore di fondo che diventa esasperante perché ogni artista, specialmente in un settore come quello della musica da club dove tutto corre a velocità supersonica, non può permettersi di far calare l’attenzione che ha intorno. Eppure chi riesce a sparire sembra avere il maggior successo. Chi non si lascia incastrare dall’ingranaggio ha maggiori posibilità di superarlo, il periodo da “solito stronzo”, e di diventare “venerato maestro”. Ho citato i Daft Punk perché sono l’esempio più lampante: quattro album in sedici anni, tra il 1997 e il 2013. Pochissime uscite pubbliche, la negazione dei propri volti, le maschere iconiche degli alter-ego robot. E proprio questa loro assenza ha alimentato e alimenta il mito. Le reazioni sono divise, c’è chi ormai si è stufato di inseguire le bufale e non ha gradito il live dei Grammy in cui “non hanno fatto nulla”, ma nessuno osa mettere in dubbio che i due siano intoccabili, irraggiungibili, dei venerati maestri appunto. Ogni album un capaolavoro, ogni uscita un evento. Mica come i soliti stronzi che pubblicano un remix alla settimana. Un altro venerato maestro è Aphex Twin, vogliamo metterlo in dubbio? In silenzio per quattordici anni, è bastato il suo logo in giro per Londra per riaccendere l’hype mondiale sulla sua figura, e anche qui: un disco, una serie di tracce scaricabili da Soundcloud da un account anonimo, e poco altro. Irraggiungibile. Niente vita da backstage su Instagram Stories, niente foto rubate dal cellulare, niente selfie con i fan.

Ora, è chiaro che ho portato due esempi che rappresentano casi rari, perchè tutto quello che vi ho elencato nasce da una condizione necessaria alla base: i Daft Punk hanno fatto ‘Homework’ e ‘One More Time, ‘RAM’ e ‘Harder Better Faster Stronger’; Aphex Twin ‘Windowlicker’ e ‘Richard D. James Album’. Hanno cambiato la musica. Ma il punto non sono i Daft Punk o Aphex Twin. Il punto è invece un atteggiamento che tutti noi (tutti, anch’io, anche molti di voi lettori probabilmente) alimentiamo ogni giorno: quello della presenza costante, sfiancante, nel mondo dei social, che proietta sul web la versione di noi che vogliamo mostrare. Senza scadere nei luoghi comuni anti-social, dobbiamo prendere atto del fatto che le cose hanno preso una piega anomala. E che se riportiamo questa visione alla sfera artistica, è facile constatare come spesso parliamo di qualcuno più per le sue esternazioni o i suoi atteggiamenti che per la musica. deadmau5 è un gran polemico, fortunatamente per lui questa sua attitudine non intacca la qualità del suo lavoro. A Kanye West non è andata altrettanto bene: adorato quanto biasimato, alla superstar americana l’eccesso mediatico ha fatto sicuramente più male che bene. Ten Walls si è giocato la carriera per un paio di post omofobi di troppo. Certo, c’è anche chi sui social ci surfa da sempre con serenità. Diplo e Steve Aoki sono l’esempio più chiaro in questo senso. Ma sfortunatamente per la maggior parte di noi, non siamo Diplo. Non ne abbiamo l’ironia, l’attitudine, la sicurezza di sè, il fascino. E comunque, lo sforzo per far parlare di sè è infinitamente maggiore rispetto alla “strategia dell’assenza” dei Daft Punk, tornando all’esempio precedente. Ciò nonostante, i Robots hanno sempre e comunque un’aura magica intorno, più di chiunque altro. Ogni anno sono puntualmente tra i più votati nella DJ Mag Top 100 Djs, pur non suonando come dj da molti anni. Si scatenano puntuali le polemiche, e loro, serafici, non si degnano nemmeno di puntualizzare. Poi ci sono anche i casi tristi di chi cerca un po’ di attenzione attraverso le polemiche o i flame facili, ma qui entriamo in un territorio di depressione tale che non voglio nemmeno metterci piede. Lo sciacallaggio porterà anche tanti like, in certi casi (ne è pieno il web), ma in quel modo non solo non si diventa venerati maestri, ma ci si ritaglia addosso la sagoma degli stronzi, anche senza “soliti”. Mentre un Maestro (e qui lo scrivo maiuscolo), per essere tale e soprattutto venerato, non ha bisogno di farsi notare costantemente. Viene notato comunque, a prescindere.
15.02.2017