Qualche giorno fa, nell’oceano di dischi di casa mia, è riemersa una vecchia compilation di Mauro Picotto per qualche rivista inglese dei primi anni 2000. Ogni traccia della tracklist aveva un breve commento dello stesso Mauro. Un pezzo di Marco Zaffarano era così commentato dal dj piemontese (ai tempi all’apice della carriera, osannato in UK e re di Ibiza): “Marco is the German dj with the Italian name”. Parafrasando il buon Picotto, posso introdurre Yakamoto Kotzuga come “the Italian producer with the Japanese name”. Perché Yakamoto è italianissimo, veneziano, e potremmo a buon titolo inserirlo in quell’onda di produttori della Giovine Italia, termine che utlizzai per un articolo di un annetto fa (più o meno) e che è diventato sinonimo di questa Italian New Wave, spesso citata sulle nostre pagine. Il nuovo album di Kotzuga si intitola “Usually Nowhere” ed esce su La Tempesta International con edizioni Sugar. Molta era la curiosità verso questo lavoro, perchè Yakamoto è uno che si è fatto notare e ha una personalità ben definita; infatti l’album non delude, e pur inserendosi in un filone già consolidato da altri produttori – uno stile rarefatto ed evocativo, quasi una serie di fotografie di paesaggi sonori, mi si perdoni il termine un po’ Nineties -, emergono una grande cura per il suono, una compiutezza e una ricerca molto più raffinate della media.
Di questo e di tanto altro si è parlato nell’intervista che leggete qui sotto, nata dopo una travagliata session via web con connessione traballante e poi rimbalzata via mail. Buona lettura!
Il tuo disco mi ha affascinato, perchè se da un alto si inserisce in un filone molto contemporaneo, dall’altro ha diverse caratteristiche personali. Come sei arrivato a un risultato di questo tipo, qual è stato il punto di partenza per questo album? Sei arrivato esattamente al risultato che volevi?
E’ sempre difficile per me, e credo un po’ per tutti, ritenersi totalmente soddisfatti dei propri lavori. Dopo aver preso la decisione di fare un album mi sono posto molte domande e ho considerato molte strategie. Fare EP è facile, secondo me: prende quei tre-quattro pezzi prodotti, magari nello stesso periodo, e li metti insieme. Non hai bisogno di un concept o di un filo conduttore. Da un lato, sebbene minimamente, i miei lavori precedenti avevano creato già delle discrete aspettative che pesavano molto. Nel frattempo io sono cambiato tanto: sono cambiati i miei gusti, i miei ascolti, la mia estetica e ho iniziato a sentire i lavori precedenti molto distanti dalla mia attuale visione delle cose. Ho smesso quindi di farmi pippe mentali e ho semplicemente fatto quello che ritenevo bello, senza strizzare l’occhio a nessuna moda o influenza. Credo di esser riuscito a fare un disco poliedrico, con brani molto diversi tra di loro ma comunque, a mio parere, coerenti nel mood e nelle scelte sonore. Di questo sono soddisfatto.
Spesso mi capita di ascoltare beatmaker e produttori capaci di fare dischi che definisco “lasciati a metà”, nel senso che ci sento molte buone idee, molte suggestioni lasciate però incompiute, come fossero delle strumentali accennate, quasi dei demo, dove gli autori si preoccupano più di far suonare tutto bene che di portare a termine la scrittura. Rispetto a questa attitudine, ho notato molta più compiutezza nei tuoi pezzi. Come la vedi? Sei d’accordo?
Innanzitutto ti ringrazio. Forse questo è dovuto al fatto che ho una concezione delle strutture meno legata all’elettronica, avendo avuto numerose band nel passato. Di certo ogni brano ha avuto una lunga sfilza di ascolti prima di esser considerato finito… tanto che ora non riesco più ad ascoltarlo!
Prima ho usato l’espressione “caratteristiche personali”, perchè oltre alla compiutezza di cui sopra, mi sono piaciuti molto certi campionamenti e certi suoni presenti nell’album, e anche il modo in cui vengono inseriti e utilizzati nell’economia dei brani. Ci sono delle registrazioni d’ambiente o mi sbaglio?
Ci sono moltissime registrazioni d’ambiente, non sbagli! La maggior parte di esse registrate con un pessimo registratore portatile, di quelli esclusivamente per voce che usavo ogni tanto all’università. Terribile rispetto allo Zoom che uso adesso, ma interessante nella sua sporcizia e bassa qualità. Per quanto riguarda la scelta dei sample, a parte qualche piccola eccezione devo ammettere che in partenza li scelgo abbastanza casualmente, poi però ci passo le ore a destrutturarli ed effettarli, per farli suonare in modi completamente nuovi.

So che sei autore per Sugar, e che nel tuo curriculum c’è un’esperienza professionale in Fabrica. Cosa mi racconti di queste attività? Ti hanno dato delle skills in più che si sono poi rivelate utili anche nel lavoro di scrittura e produzione per te stesso?
A Fabrica, centro di ricerca sulla comunicazione del gruppo Benetton, sto svolgendo una residenza artistica della durata di un anno che finisce a luglio. In questi mesi mi ha fatto crescere incredibilmente, ho approfondito moltissimo le mie skills come sound designer e musicista, fornendo la musica a moltissimi progetti bellissimi e a sviluppandone altri (80UA ne è un esempio, avendo avuto anche un feedback incredibile da grandi testate) e dandomi la possibilità di lavorare a stretto contatto con grandi professionisti – a questo proposito non posso non nominare il capo del music department Francesco Novara che ha insistito per la mia presenza in questo splendido luogo di cultura. Inoltre Fabrica ha prodotto alcuni contenuti, come il bellissimo video-trailer e un altro video in uscita a breve. Per quanto riguarda Sugar, devo dire che il mio rapporto è iniziato da neanche un mese, quindi è ancora presto per dirti qualcosa. Di certo il fatto che si siano interessati a me, che sicuramente non faccio musica tale da potersi definire “commerciale”, credo sia un gran segno e gli faccia molto onore.
Riguardo a Sugar, lavorare come autore ti ha già permesso, o in prospettiva ti permetterà di collaborare con artisti che stimi e con cui avresti voluto lavorare (sto cercando lo spoiler, sì!)?
Come ti ho già detto è ancora presto, ma ci sono molti artisti che stimo molto nel roster, un esempio sono gli M+A. Ma la sfida che mi attizza di più è quella di portare un certo tipo di elettronica nel pop, penso a FKA Twigs o cose così. Portare una ventata nuova, cambiare un po’ le cose, sperimentare il più possibile.
In Italia, da un paio d’anni a questa parte, si è formata una generazione di produttori elettronici di grande talento e di forte attrazione sul pubblico, sulla critica (scusami il termine, non lo sopporto), su alcune personalità del mondo musicale. Penso a te, a Godblesscomputers, Go Dugong, Indian Wells, al ritorno di Populous, a Clap! Clap!. Secondo te perchè, in un Paese come il nostro, dove – al netto dell’esterofilia e di una certa tendenza cronica a sottovalutarci – esiste un serio problema di scarsa lungimiranza e di conservatorismo, si è formata una scena così vivace e attiva, apprezzata anche all’estero?
Io sono convinto che in Italia ci sia un’ondata di talenti per la quale non abbiamo davvero niente da invidiare all’estero. Il problema è semmai di mercato, ma questo non vuol dire che non ci siano persone dotatissime e consapevoli del loro valore, con la voglia di spaccare tutto e osare di più. Ma secondo me le cose stanno pian piano cambiando, anche le grosse case discografiche stanno iniziando ad aprirsi verso questo nuovo fenomeno di elettronica, vedi la Sugar con me per esempio… il pubblico incomincia ad esserci ed a interessarsi al genere, a supportare. Tra l’altro questa arretratezza può esser anche un punto a favore dei nuovi producer, probabilmente è più facile emergere in Italia dove queste cose sono completamente nuove rispetto, per esempio, all’Inghilterra, dove c’è una cultura che affonda le radici molto più indietro.
Zoomando ulteriormente, tu sei veneto. La tua terra è molto frizzante in termini di producer elettronici (non solo, in realtà); credi di essere influenzato dal tuo territorio? E’ una domanda che mi faccio spesso in relazione a una musica che sembra essere il manifesto stesso di una geografia più virtuale che reale, appartenente più al web che alla divisione territoriale geopolitica reale.
Non lo so, come puoi intuire dal titolo del mio disco non sono poi così attento alle coordinate geografiche. Mi piace pensare che non sia importante il posto in cui ti trovi nonostante possa essere fonte di ispirazione, credo sia più importante quello che si fa, ogni posto può essere adatto. Sono qui e non sono da nessuna parte come sono anche ovunque, “Usually Nowhere” parla proprio di astrazione e di un luogo interiore. Ma essendo di Venezia (sì, proprio l’isola) posso dirti che questa città ha un’essenza tutta sua. Una bellezza triste che penso di portarmi dentro ovunque vado. La vicinanza con l’acqua mi manca sempre, un apertura verso il mare. Venezia è molto “Usually Nowhere” e sicuramente il fatto di aver partorito questo disco lì, dove sono nato, in qualche modo lo ha influenzato, così come influisce in ogni cosa che faccio. Almeno credo.
Il tuo lavoro esce su La Tempesta International, una label che si sta aprendo all’orizzonte elettronico in modo molto sensato e intelligente, secondo me, ma che è a lungo stata l’etichetta-simbolo di un certo indie italiano. Come hai scelto La Tempesta, preferendola magari a opzioni che sulla carta potevano essere in un’orbita più vicine alla tua sfera d’interesse?
Io personalmente sono cresciuto ascoltando i Tre Allegri Ragazzi Morti e in generale la musica dell’etichetta. Entrare a far parte di questa realtà è stato un po’ come realizzare un piccolo sogno e devo dire che a quasi un anno di distanza dal primo contatto ne sono completamente soddisfatto, non credo che avrei potuto trovare di meglio a livello professionale e personale. Ho trovato completa libertà e tanta fiducia, cose senza la quale non riuscirei a lavorare in maniera produttiva e positiva. Credo che la loro notorietà sia dovuta a questo, ad una mentalità fresca ed intelligente. A tal proposito sono stato incaricato di occuparmi della formazione di un roster elettronico, con il desiderio di creare una vera e propria area dell’etichetta che tratti di quello. Quindi immaginati la mia felicità di essere passato in pochissimo tempo da fan ad artista ed infine a parte integrante dell’etichetta.

Quali sono gli artisti, o le realtà (musicali ed extra) che ti hanno influenzato e ti influezano maggiormente?
Da un lato l’elettronica più recente come Flying Lotus, Andy Stott, Shlohmo, Nosaj Thing, James Blake, Airhead, Forest Swords, Vessel, dall’altro le cose che toccano molto le mie corde a livello emotivo sono il post-rock e la fetta più emo, gente tipo: American Football, Empire!Empire!, You Blew It!, Explosions In The Sky, Fine Before You Came, Verme etc..
Ultima domanda, banalissima, ma non l’ho mai fatta a nessuno in vita mia e visto che hai un nome fichissimo mi va di farla: perchè Yakamoto Kotzuga?
E’ una storia buffa e non molto interessante. All’epoca campionavo molta musica orientale e giocavo con un amico a formare anagrammi con i nomi, con qualche bicchiere di trogolo l’abbiamo fatto con il mio, e rendendolo un po’ più nipponico il risultavo piaceva molto ad entrambi. Ormai ci sono affezionato, credo funzioni e crei molta curiosità. Però no, non sono giapponese (anche se è una cultura che apprezzo molto).
08.04.2015