• SABATO 05 OTTOBRE 2024
Tech

Incongruenze e miti da sfatare sul mastering (prima parte)

Leggende metropolitane, chiacchiere da bar e pressapochismi accerchiano una pratica che perfeziona il mix di una produzione musicale. Ci siamo fatti aiutare da veri esperti per scongiurare ancora una volta la superficialità su un tema tecnico così caro ai produttori

Permettete il preambolo. Questo è un argomento molto tecnico che interessa non solo i professionisti e gli aspiranti tali, ma tantisismi appassionati, essendo sulla bocca di tutti quelli che stanno dietro le quinte. Mastering, parola usata, anzi abusata, incompresa, strapazzata e giudicata, spesso raggirata. Perfezionamento indiscusso e a tratti moda, negli ultimi anni, con l’avvento del digitale, con la loudness war e le radio e le piattaforme che spingono. Invece, in fondo, esigenza nel quadro generale: l’atto finale di una produzione musicale.

Il mastering è davvero il culmine, l’ultimo passo prima della consegna di un prodotto finito, tassello mancante e ultimo di quel mosaico chiamato master. Fare confusione è un attimo e i produttori gli albori inciampano nelle dicerie. Come il ritornello di una canzone, riecheggia il “sì, okay, suona male ma con un buon mastering tutto sarà meraviglioso”. Sembra una favola, sembra che possessori di bacchette magiche possano, come degli Harry Potter, cambiare e ottimizzare la qualità sonora di un pezzo con la parola fatata. Balle.

 

Allora viene comodo giocare con un’allegoria, per illustrare che certe leggende metropolitane sono fumo negli occhi. Via con la metafora: avete in mente il polish, la lucidatura, il processo attuato per rendere lucida la superficie di un oggetto, in modo tale che il corpo in questione brilli di luce riflessa? Si fa spesso sulle vetture. Bene, fatelo su un’auto ammaccata e avrete messo in risalto tutti i suoi difetti. Fatelo su una senza un graffio e farà un figurone.

Ecco, il mastering è il polish di una produzione e del suo penultimo passo, il mix. Un pessimo mix porta a un mastering ancora peggiore. Così, abbiamo convocato degli esperti del settore, per scongiurare ancora una volta la superficialità su un tema tecnico così caro a tutti. Da Morris Capaldi a Luca Pretolesi, da Walter Mangione a Rexanthony, da TeetoLeevio sino a Camillo Corona e ad Alex Picciafuochi.

Luca Pretolesi presso Studio DMI

Morris Capaldi di Proofmastering, con alle spalle svariati lavori per Armada Music, David Guetta, Spinnin’, Universal e tanti altri, taglia corto: Chi non sa lavorare, spera che il mastering gli salvi la traccia. Chi invece sa lavorare, ha paura che gliela rovini. Una pessima produzione compromette tutto il lavoro. Un pessimo mix compromette tutto il lavoro. Un pessimo mastering, anche”.

Spesso il mastering viene curato dagli stessi produttori che sono arrivati dalla pre-produzione e che hanno sorpassato il mix. Come TeetoLeevio, uno che ha messo le mani sui dischi di La Toya Jackson, Boy George, Joe Smooth e tanti altri. “Ho un sacco di hardware e posso ascoltare comparando in due mie regie. Se il progetto è importante e c’è un minimo di budget di solito lo faccio fare in Inghilterra. Se il progetto è quello che definisco ‘cartone animato’ (quindi in stereo), mando solo il master mix. Mixo cartoni stereo. Se il progetto è multicanale, mando stem mix”.

(segue nella parte 2)

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Riccardo Sada
Riccardo Sada
Distratto o forse ammaliato dalla sua primogenita, attratto da tutto ciò che è trance e nu disco, electro e progressive house, lo trovate spesso in qualche studio di registrazione, a volte in qualche rave, raramente nei localoni o a qualche party sulle spiagge di Tel Aviv.